domenica 4 settembre 2011

Se questo mondo vi sembra un inferno, dovreste vedere gli altri


Dante, Divina Commedia, Canto X
Manoscritto proveniente dall'Italia settentrionale (forse Genova)
risalente al terzo quarto del XIV secolo
Oxford, Bodleian Library

Se andate a cercare il Ghetto di Genova su internet, vi potreste imbattere in questo articolo risalente al 2008: http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2008/04/04/ALrXf6gB-uomini_topinella_crolla.shtml) Sono ormai passati tre anni e, da qualche tempo, i toni della stampa sono un po' cambiati. Ma per tanti genovesi, l'idea del Ghetto rimane quella.
L'articolo è infelice, d'accordo, e le banalità che sciorina finiscono per sovrastare i gravi problemi che invece vengono messi correttamente in luce. Se uno dice dieci cose giuste e tre idiozie, la gente si ricorderà solo le idiozie, sono sicuro che succederà anche per questo blog. Il male che uno fa vive oltre di lui, mentre il bene rimane sepolto con le sue ossa... così sia per Cesare.
Per questo, adesso che sono ancora ai primi post, invece di parlare dei problemi concreti del Ghetto, mi soffermerò un attimo sulla chiusa di quel famigerato articolo. Gratuita, un po' fuorviante... un po' troppo facile da memorizzare. Come uno slogan. “Chi crede che la parola inferno sia solo un'iperbole, faccia due passi qui. Magari dopo le dieci di sera”.
Ora, io non ho mai visto l'inferno. Ma l'ho potuto scorgere molte volte. Negli occhi dei sopravvissuti alle guerre o in certe strade sopravvissute ai loro abitanti. Spesso viene esorcizzato nei musei, ma a volte te lo trovi dinnanzi per strada. L'altro giorno, in Via delle Fontane, ho visto uno dei profughi che il Comune ha accolto in una palestra ricavata dentro l'oratorio di una chiesa sconsacrata. Se ne stava appoggiato al muro della porta della palestra con lo sguardo perso nel vuoto, borbottando qualcosa tra sé e sé. Forse era una preghiera. Più probabilmente imprecazioni.
Ora, il marciapiede di Via delle Fontane è molto stretto, e per poter camminare non ho potuto fare a meno di finirgli tra i piedi e interrompere il suo personale colloquio con Dio. Allora lui mi ha guardato. Una faccia normale, dai tratti malinke. Ma in fondo ai suoi occhi, per un attimo ho visto l'inferno. Un inferno fatto di sabbia e di acqua, di calore e di freddo, di deserto e di mare. Un infermo, racchiuso in uno sguardo. Perché uno l'inferno se lo porta dentro e anche il Ghetto fa così.
Se andate giù per Vico della Croce Bianca, ma svoltate a destra prima di arrivare in Via del Campo, troverete la Piazza Senza Nome. Di giorno è un improvviso spazio assolato, magari con qualche ragazzino nordafricano che gioca, ma di notte diventa uno spazio deserto. Silenzioso. L'inferno allora sembra vicinissimo, e lo è per davvero, e si trova là dov'è naturale che sia, là dove la gente butta i rifiuti. Non guardate dentro al fondo dove l'AMIU ha sistemato i cassonetti per la spazzatura, ci vedreste un banco di spacciatori che ha organizzato lì il suo punto di vendita. Se non li guardate, non sono pericolosi, ma non gli piace venire disturbati. Quello lì è davvero l'inferno, dove i demoni vendono l'illusione della felicità in cambio dell'anima di chi accetta, spacciatore o tossico che sia. A meno che non siate anche voi un dannato, nessuno vi rivolgerà la parola e nessuno vi ruberà il portafoglio: al diavolo non piace attirare l'attenzione sulle sue attività.
Quindi è proprio vero, nel Ghetto c'è l'inferno. Non dà emozioni forti (per quelle bastano i redattori del Secolo XIX), ma si nasconde a fianco alla Piazza Senza Nome e, ogni giorno che passa, succhia via un po' della sua forza vitale. Tutte le volte che vengono a pulire i vicoli, e il Ghetto si riempie di solerti netturbini muniti di idrante, l'inferno si sposta da qualche altra parte, ma è una magra consolazione, soprattutto perché ti fa capire che se anche riuscissimo a scacciare l'inferno da queste strade, risorgerebbe subito da un'altra parte. Noi, magari, ci possiamo salvare, ma l'inferno esisterà sempre.
Ma l'inferno è eterno per davvero? I rabbini di Leopoli raccontavano una storia, e, dato che siamo nel Ghetto, l'opinione dei rabbini mi sembra pertinente. Una volta, il Rav di Vitebsk (cos'è un rav? Diciamo che è un rabbino molto rispettato) andò all'inferno. Ma non come il nostro Dante, che lo fece, per così dire, “da turista”, il Rav di Vitebsk ci andò di sua sponte, ritenendo sé stesso indegno del paradiso. Pensava di non aver sfruttato in pieno le sue capacità per rendere il mondo migliore e di essere stato troppo superbo nel far sfoggio della sua intelligenza. Quando lo seppe, Dio si precipitò agli inferi per convincere il Rav ad uscirne: se un uomo come lui era all'inferno, chi mai avrebbe potuto stare in paradiso? Ma il Rav rimase fermo nella sua decisione, perché se era vero che era 'umanità a costruirsi da sola il proprio inferno, lui, come rabbino, non aveva fatto abbastanza per fermarla. Allora Dio prese il Rav e con lui le anime di tutti i dannati per portarli in cielo e poi chiuse per sempre le porte dell'inferno, che, da allora, rimase vuoto.
La morale è facile da capire. Se non vediamo veramente com'è l'inferno e non capiamo davvero cos'è l0inferno, non potremmo mai chiedere a Dio o a chi per lui di venire e fare qualcosa.
Chi crede che la parola inferno sia soltanto un'iperbole, venga da queste parti, anche prima delle dieci di sera. Dopo, probabilmente, ci troverà soltanto me che sto rientrando a casa.

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