domenica 25 settembre 2011

L'unica cosa di cui aver paura...



Norman Rockwell
Libertà dalla paura (1943)
Stockbridge (MA), The Norman Rockwell Museum


Con il Comitato di Quartiere abbiamo già fatto due “giornate di pulizia”... ce ne sarà una terza, e probabilmente una quarta e una quinta e così via.
Non è che combiniamo molto: per un'ora o due si va in giro per i vicoli armati di ramazze e guantoni e si leva un po' di sporcizia... niente di professionale: anzi, dopo due esperienze del genere mi rivolgo a quelli dell'AMIU dicendo “Signor Netturbino”. Perché lo facciamo, allora?
Perché il gesto simbolico di girare insieme per i vicoli è molto più importante del risultato concreto quantificabile in chili di immondizia rimossi; perché significa appropriarsi della strade in cui viviamo e smettere di averne paura.
In effetti, la paura è stato il principale veicolo di consenso utilizzato nel corso del XX secolo (l'altro è stato la spesa pubblica) e continua ad esserlo tuttora: paura dei comunisti, degli immigrati, dei capitalisti, dei liberisti, degli intellettuali... certo, in tutte queste categorie c'è un congruo numero di brutta gente (specie tra gli intellettuali), ma non è che per questo bisogna averne paura in blocco come se ognuno di loro fosse l'uomo nero che ti porta via. Roosevelt (F.D.) che non solo aveva dei bravi ghost-writer, ma era bravo anche di suo, si studiò una frase destinata a fare epoca in un periodo in cui il totalitarismo sembrava la forma di governo destinata a trionfare sul pianeta: "L'unica cosa cui di dobbiamo aver paura è proprio la nostra paura".
Ci pensavo il giorno della pulizia: finiti i lavori eravamo tutti attorno ad una mensa improvvisata tra la moschea e la casa di quartiere (che il padrone del Kebab vicino aveva letteralmente riempito di ogni ben di Dio). Mentre eravamo tutti lì, proprio davanti a noi due nordafricani (e uno di loro era una faccia “nota”) hanno iniziato a litigare molto rumorosamente. Troppo rumorosamente. Non era una rissa (erano solo due persone cui se n'è aggiunta una terza che cercava di fare non molto convintamente da paciere) quanto un alterco rumoroso, ma si stava svolgendo proprio davanti alla tavola dove eravamo tutti. “Ecco” ho pensato “il nostro era uno spettacolino per far vedere che queste strade appartengono a noi... ecco un altro spettacolino fatto da chi pensa che le strade siano invece sue”. In effetti, si trattava soltanto di una piccola “contromanifestazione” scioltasi dopo pochi ma rumorosi istanti. “Mamma mia” ho pensato ancora “quanta paura deve avere uno spacciatore del fatto che la gente cominci a sciamare per i vicoli, disturbando le operazioni di compravendita!”
Sì, un posto per spacciare ci sarà sempre, ma più lontano sarà dal centro più gli affari potrebbero calare e, sinceramente, non credo che uno spacciatore guadagni così tanto da potersi permettere una brusca contrazione degli affari. I suoi “datori di lavoro”, quelli sì che guadagnano tanto, ma gli spacciatori da strada li vedi sempre nello stesso posto, con le stesse magliette usurate e la stessa espressione incarognita di chi quel giorno ha messo in tasca ben poco. Secondo me vengono attirati nel giro con un po' di soldi quando sono giovanissimi (e quindi non incarcerabili) e quando i loro desideri possono essere esauditi da cifre con due (massimo massimo tre) zeri, poi; quando riangono stretti ben bene alla rete di spaccio, i soldi cominciano a diminuire fino al limite della fame, così sono spinti a diventare più intraprendenti (no... non ho mai spacciato in vita mia, me lo immagino perché fanno così con i venditori e con i brokers della borsa).
Insomma: per la strada o noi o loro, è la legge del mercato.
Non solo. Quello che mi ha colpito della scena è che i due (o tre) spacciatori stavano facendo esattamente la stessa cosa che facevo io. Difendevano il loro territorio. D'altra parte, erano stati lasciati in pace così tanto tempo e loro se lo erano preso proprio perché non lo voleva nessuno. Anch'io al loro posto mi sarei incazzato!
Vi farò ridere, ma lì per lì ho dovuto anche chiedermi se fossimo noi nel giusto. Dovete capirmi: sono cittadino di un paese dove essere un immigrato è un reato, e per un cittadino onesto è un dovere denunciarne la presenza (anche se si è il suo medico o il suo insegnante); mentre non è reato truffare, mentire e – in molti casi – rubare. Credo in una religione in cui si dice che l'aborto è sempre omicidio mentre bombardare dei bambini può anche non esserlo. È andata a finire che devo valutare le cose caso per caso, senza mai dare per scontato di essere io dalla parte della ragione (diciamo che quando il cardinal Ratzinger – persona di grande intelligenza – un giorno prima di diventare papa ha letto il discorso sulla “navicella della chiesa squassata dalle onde del relativismo” mi sono gasato nel pensare che a soffiare c'ero io). Così, di fronte ai due spettacolini contrapposti, mi sono chiesto spassionatamente da che parte stesse il giusto. Ma la risposta, per una volta, era facile: il giusto sta dala parte del gruppo che cerca di dare benessere al maggior numero di individui e io non sono ancora così bravo in matematica per fare i calcoli relativi ai 6 miliardi di persone che abitano il pianeta, ma lì nel vicolo il problema era banalmente dimostrato. Da una parte c'erano una quarantina di residenti mediamente felici (non dico che fosse il Carnevale di Rio, ma una simpatica festicciola, sì) e dall'altro tre spacciatori incazzati che sbraitavano e se ne sono andati quando hanno visto che non riscuotevano così tanto interesse.
Se i cani segnano il loro territorio pisciando sui muri, e i malintenzionati (chiamiamoli genericamente così qualunque sia il ivello di cattiveria delle loro intenzioni) lo fanno con le risse, le persona di buona volontà (chiamiamole genericamente così per poca o tanta che sia) lo fanno semplicemente andando per la strada; e, credetemi, non è poi così facile nei difficili tempi che stiamo attraversando.
È per questo che quando ho sentito che, esattamente il giorno dopo la bella iniziativa di Via Pré, c'è stata una brutta rissa davanti alla Commenda – che tra l'altro ha coinvolto uno degli organizzatori della manifestazione del giorno prima che passava di lì casualmente assieme al figlio – invece di pensare (come sembra abbiano fatto tutti) che siamo dei poveri illusi perché violenza e delinquenza sono incontrollabili nel centro storico, mi sono detto: “Accidenti, per arrivare ad una replica così violenta, la festa di ieri deve aver funzionato sul serio!”
Sbagliavo. Un conto è lo spettacolino di un alterco fatto da due spacciatori infastiditi dal tramestio nel “loro” territorio, un conto è la rissa a bottigliate che si è scatenata la sera scorsa. I mezzi di informazione, cavalcando il contrasto tra le immagini della “festa multietnica” con tanto di autorità e quelle di una rissa stile Bronx, non hanno pensato che insistendo sul legame tra le due vicende potesse instillare l'idea che non fosse una coincidenza (e io, lo confesso, sono un grande appassionato di dietrologia).
Per fortuna – ma ci starebbe anche un purtroppo – non è così. La rissa era davvero una coincidenza. Anche se la “pericolosità percepita” del centro storico è infinitamente maggiore di quella reale, le risse sono all'ordine del giorno e con i tempi di crisi che ci attendono sono destinate ad aumentare. E quella di Pré ha ottenuto l'interesse della cronaca solo perché avvenuta quasi in concomitanza con la festa del giorno prima.
Quest'ultimo fatto è però quello che ci deve far pensare. La festa ha avuto un tale risalto da dare interesse alla rissa (e non il contrario) e, quindi, anche se la rissa non ne è stato il riflesso condizionato, il discorso sull'importanza simbolica di simili manifestazioni rimane inalterato, non foss'altro perchè ha portato all'attenzione del pubblico una serie di problemi anche più vasta di quanto ci si proponesse inizialmente.
Per concludere, se è importante la presenza delle forze dell'ordine in zona (molto meglio i poliziotti di quartiere delle ronde di alpini, volenterosi ma spaesati) ed è probabilmente inutile quella delle telecamere (per la maggior parte finte e comunque inutilizzabili per identificare chicchessia), fondamentale è il fatto che la gente ritorni per strada e conosca i propri vicini. E soprattutto, che impari a non averne paura.

 
Max Beckmann (1884 - 1950)
La Notte (1919)
Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen


3 commenti:

  1. Ah, Capitano! Questo sì che è un bel post! La paura... oggi circola un'e-mail che dice: non farti intimorire dalle tue paure, la maggior parte delle cose che hai temuto non si sono mai verificate (bello, no? perchè sottolinea che con l'immaginazione creiamo molti più scenari di quanti se ne possano verificare concretamente) (e un proverbio diceva: l'eroe muore una sola volta, il vile mille) MIKI!

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  2. però rovescia l'ordine dei due dipinti: prima rockwell e poi il goyano...

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  3. Accidenti, sai perché mi fai inca**re? Tanti anni che penso ai quadri di Beckmann - nelle collezioni americane ne ho visti di splendidi -e non mi ero mai accorto che guardava sempre a Goya! E poi dicono che i blog non servono!

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