lunedì 26 settembre 2011

Titolo rettificato ai sensi dell'art.3, comma 29 del ddl "intercettazioni"



Norman Rockwell
Libertà di parola (1943)
Stockbridge (MA), The Norman Rockwell Museum

Pensato inizialmente come un omaggio allo stile “barzellettiero” di argomentazione politica, così in voga in questi giorni, il post avrebbe dovuto intitolarsi:

TITOLO RETTIFICATO AI SENSI DELL'ART 3, COMMA 29 DEL DDL “INTERCETTAZIONI”
SU RICHIESTA DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
SILVIO FACCE RIDE!

anche se dopo, la tentazione di utilizzare comunque qualcosa di spocchiosamente colto mi aveva fatto optare per:

TITOLO RETTIFICATO AI SENSI DELL'ART 3, COMMA 29 DEL DDL “INTERCETTAZIONI”
SU RICHIESTA DELLA SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI
CON L 'AGGRAVANTE DI SOSPETTA VIOLAZIONE DI COPYRIGHT
POVERA ITALIA, SCHIACCIATA DAGLI ABUSI DEL POTERE

ma alla fine anche quello non mi convinceva un gran che. Così avevo optato per:


TITOLO RETTIFICATO AI SENSI DELL'ART 3, COMMA 29 DEL DDL “INTERCETTAZIONI”
SU RUCHIESTA DELLA RAMAZZOTTI - GRUPPO PERNOD RICARD 
BARI DA BERE, MILANO DA GONFIARE

in onore dell'avanzamento di rating ottenuto dalla Puglia di Nichi Vendola rispetto a quello della Milano post-Moratti, ma ho dovuto rinunciarci quando ho saputo che anche il nostro Comune e la nostra Regione hanno seguito le orme meneghine.
Pittaluga! Pittaluga! Rendimi le mie palanche!
Testo rettificato ai sensi dell'art. 3, comma 29 del ddl “intercettazioni” su richiesta dell'Assessorato al Bilancio della Regione Liguria e modificato in:
Tremonti! Tremonti! Smettila coi tagli!
Testo rettificato ai sensi dell'art. 3, comma 29 del ddl “intercettazioni” su richiesta del Ministero dell'Economia e delle Finanze e modificato in:
Ah, malefici effetti del complotto plutocratico giudaico-massone che vuole la rovina dell'Italia!
Testo che, sinceramente, rettificherei io ai sensi della norma contenuta nella Costituzione Italiana che vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista (per la cronaca si tratta della XII disposizione transitoria e finale), ma oggi come oggi con la Costituzione ci si puliscono il culo  Testo rettificato ai sensi dell'art. 3, comma 29 del ddl “intercettazioni” su richiesta della Corte Costituzionale e modificato in: gli occhiali.
Così il post non ha titolo, ed ha un semplice valore di metafora.
La barzelletta è presto detta: un vecchietto cieco arriva in spiaggia; tira fuori dalla borsa una bambola di gomma piuttosto esplicita e comincia a gonfiarla. Un ragazzo gli si avvicina e, con circospezione, lo prega di smettere, perché sta dando scandalo. Il vecchio cieco dapprima non capisce, poi grida, terrorizzato: “Noooo! Mi vuol dire che per tutto l'inverno ho scopato col canotto?”
Non importa se fa ridere o no. È perfettamente in linea con il dibattito politico italiano di questi ultimi anni, e mi serve per fissare l'attenzione su alcune situazioni. In primo luogo, il meccanismo comico scatta a causa della cecità del malcapitato protagonista. Ora, pensate un attimo la stessa barzelletta, in cui il vecchietto però non è cieco. In quel caso non ci sarebbe niente da ridere: il poveretto sarebbe invece un mentecatto minus habens. E pensiamo ancora se fosse un Ministro della Repubblica (uno qualsiasi, non specificato, anzi fittizio e di uno stato non esistente). Povero stato non esistente! Ma le cose potrebbero andare ancora peggio se invece che su una spiaggia, la barzelletta si svolgesse in un consesso parlamentare.
Mi si potrebbe obiettare che la situazione è talmente assurda da non essere concepibile neppure come battuta. Beh... in primo luogo la cronaca italiana degli ultimi anni è piena di episodi non troppo diversi (che in linea di principio non sarebbero rettificabili perché acclarati, ma il ddl “intercettazioni” NON sembra contempli l'interessante quanto desueta distinzione tra fatti veri e falsi, pertanto ve li lascio soltanto ricordare). Inoltre, basta pochissimo per far sembrare la situazione descritta terribilmente plausibile: se nel nostro immaginario paese le parole “canotto” e “bambola gonfiabile” fossero i soprannomi di determinati pacchetti legislativi o economici (e guardate che “porcellum” esiste sul serio) la barzelletta finirebbe per essere identica a dibattiti politici di stringente attualità. Oggi tutti, immaginari o meno, si accusano reciprocamente di non aver saputo interpretare i segnali socio-economici (dei mercati, delle nazioni mediorientali, persino delle statistiche geosismiche), di aver predicato politiche liberiste e aver attuato norme stataliste (o magari viceversa) o ancora di aver cavalcato il corporativismo dicendo di combatterlo. Per dirla con una metafora discutibile ma colorita, sembra che tutti accusino il prossimo di aver scopato col canotto invece che con la bambola.
Beh...se fossero stati ciechi, sarebbero tutte barzellette, ma nessuno era cieco. Personalmente mi domando come sia stato possibile che dati importanti e consultabili da un qualsiasi internauta siano stati sistematicamente ignorati, quando era evidente a direzione che stavano indicando. Io e tutti quelli che conosco vedevamo benissimo il radicarsi dei corporativismi e delle conseguenti rendite da posizione o da monopolio nelle strutture sociali del paese, sapevamo che il loro apporto al beneamato PIL era soltanto un comodo espediente per rispettare le norme UE ma non aveva niente a che fare con l'economia reale. E quando i giornali hanno improvvisamente scoperto il disavanzo (un po' come se avessero improvvisamente detto a tutti gli italiani che erano anni che scopavano con il canotto), ci siamo chiesti come fosse possibile che nessuno se ne fosse accorto prima. Cecità? Malafede?
Penso soltanto a cosa risponderebbe il nostro presidente del Consiglio, se la Task Force di economisti (che pare sia stata messa su in fretta e furia subito dopo aver detto che andava tutto bene) andasse da lui dicendogli che da tre anni scopava con un canotto. Lui risponderebbe “Eh no... devo rettificare: la consigliera Minetti è solo un po' rifatta”.

Ben Shahn (1898 - 1969)
La passione di Sacco e Vanzetti (1931 - 32)
New York, Whitney Museum of American Art

domenica 25 settembre 2011

Pillole del post precedente



Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Sentinella all'erta! (1860)
Mannheim, Städliche Kunsthalle

 Sulla sicurezza
Genova è la città più americana d'Italia, soprattutto perché per anni abbiamo avuto più contatti con New York che con Milano. D'altra parte, quando Renzo Piano aveva invitato una di New York, uno di Barcellona e uno di Londra per discutere del PUC  molti (me compreso, lo ammetto) avevano pensato che si fosse bevuto il cervello in un delirio di onnipotenza. E invece non aveva tutti i torti... non a caso lui è Piano e io un personaggio di fantasia...
Senza andare nello specifico, è interessante notare come certe situazioni urbane delle grandi città americane si ritrovino da noi, che tanto grandi non siamo. A questo proposito, vorrei ricordare Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane (1961) di Jane Jacobs, grandissima studiosa dei fenomeni urbani (un gigante della sua generazione), soprattutto nella parte in cui spiega la fondamentale importanza, in termini di sicurezza sociale, che ha l'appropriarsi della “strada” da parte dei residenti. Molti studiosi nutrono infatti forti dubbi sul reale impatto delle politiche di “tolleranza zero” attuate da Giuliani (il più interessante e originale mi sembra sempre Freakonomics (2005) di Steven Levitt).
In quest'ottica, trovo che iniziative come quella della “giornata di pulizia” siano terribilmente importanti anche al di là dei risultati pratici, perché rappresentano una quanto mai significativa riappropriazione dei vicoli da parte dei residenti. D'altra parte, la rissa alla Commenda avvenuta proprio il giorno dopo la “festa multietnica” di Pré ha ottenuto un certo risalto solo perché la manifestazione del giorno prima ha avuto successo, e non ne vanifica affatto il significato ma anzi, spinge a pensare che quella sia la strada buona. 


Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Tornando a casa di notte (1860 c.)
Winterhtur, Reinhard Sammlung

Sul Centro Storico
In tutte le città esistono zone adibite a “camere di decompressione” delle emergenze sociali, siano esse l'immigrazione, la droga o la povertà. E generalmente le si concentra tutte assieme in un'area più o meno disagiata, che così alla fine esplode. Lo hanno fatto alla periferia di Parigi in quartieri nuovissimi ed efficientissimi (quest'ultimo aggettivo NON è ironico) che puntualmente insorgono per la gioia del ministro degli interni che può così invocare misure rigorose. A Genova questa “camera di decompressione” è il Centro Storico che, essendo vecchia di secoli, regge infinitamente meglio a questo genere di problemi. Certamente non somiglia al centro storico di Basilea o di Utrecht, ma è senz'altro un posto assai più vivibile di quel che si potrebbe pensare. Le situazioni umane e sociali che vi si incontrano sono così “stratificate” da rendere necessaria una certa attenzione negli interventi, se non si vuole che rimangano lettera morta. Ad esempio, la condizione di sovraffollamento di molti alloggi è spesso causa di pericolo concreto (penso alle caterve di bombole di gas che vi si accumulano) oltre che di disagio e di degrado, essa è probabilmente a monte di quel malessere sociale che sfocia, a volte, in manifestazioni violente. La risposta non dovrebbe consistere in una risposta esclusivamente “punitiva” (arresto degli inquilini e multa per i proprietari) ma considerare anche elementi di incentivo, fiscale o contrattuale, per i comportamenti effettivamente “virtuosi”. Usare solo il bastone e mai la carota spinge solo la gente a ingegnarsi su come eludere la bastonata.

Carl Spitzweg (1808 - 1885)
La perquisizione alla dogana (1880 c.)
Monaco, Lenbachhaus

L'unica cosa di cui aver paura...



Norman Rockwell
Libertà dalla paura (1943)
Stockbridge (MA), The Norman Rockwell Museum


Con il Comitato di Quartiere abbiamo già fatto due “giornate di pulizia”... ce ne sarà una terza, e probabilmente una quarta e una quinta e così via.
Non è che combiniamo molto: per un'ora o due si va in giro per i vicoli armati di ramazze e guantoni e si leva un po' di sporcizia... niente di professionale: anzi, dopo due esperienze del genere mi rivolgo a quelli dell'AMIU dicendo “Signor Netturbino”. Perché lo facciamo, allora?
Perché il gesto simbolico di girare insieme per i vicoli è molto più importante del risultato concreto quantificabile in chili di immondizia rimossi; perché significa appropriarsi della strade in cui viviamo e smettere di averne paura.
In effetti, la paura è stato il principale veicolo di consenso utilizzato nel corso del XX secolo (l'altro è stato la spesa pubblica) e continua ad esserlo tuttora: paura dei comunisti, degli immigrati, dei capitalisti, dei liberisti, degli intellettuali... certo, in tutte queste categorie c'è un congruo numero di brutta gente (specie tra gli intellettuali), ma non è che per questo bisogna averne paura in blocco come se ognuno di loro fosse l'uomo nero che ti porta via. Roosevelt (F.D.) che non solo aveva dei bravi ghost-writer, ma era bravo anche di suo, si studiò una frase destinata a fare epoca in un periodo in cui il totalitarismo sembrava la forma di governo destinata a trionfare sul pianeta: "L'unica cosa cui di dobbiamo aver paura è proprio la nostra paura".
Ci pensavo il giorno della pulizia: finiti i lavori eravamo tutti attorno ad una mensa improvvisata tra la moschea e la casa di quartiere (che il padrone del Kebab vicino aveva letteralmente riempito di ogni ben di Dio). Mentre eravamo tutti lì, proprio davanti a noi due nordafricani (e uno di loro era una faccia “nota”) hanno iniziato a litigare molto rumorosamente. Troppo rumorosamente. Non era una rissa (erano solo due persone cui se n'è aggiunta una terza che cercava di fare non molto convintamente da paciere) quanto un alterco rumoroso, ma si stava svolgendo proprio davanti alla tavola dove eravamo tutti. “Ecco” ho pensato “il nostro era uno spettacolino per far vedere che queste strade appartengono a noi... ecco un altro spettacolino fatto da chi pensa che le strade siano invece sue”. In effetti, si trattava soltanto di una piccola “contromanifestazione” scioltasi dopo pochi ma rumorosi istanti. “Mamma mia” ho pensato ancora “quanta paura deve avere uno spacciatore del fatto che la gente cominci a sciamare per i vicoli, disturbando le operazioni di compravendita!”
Sì, un posto per spacciare ci sarà sempre, ma più lontano sarà dal centro più gli affari potrebbero calare e, sinceramente, non credo che uno spacciatore guadagni così tanto da potersi permettere una brusca contrazione degli affari. I suoi “datori di lavoro”, quelli sì che guadagnano tanto, ma gli spacciatori da strada li vedi sempre nello stesso posto, con le stesse magliette usurate e la stessa espressione incarognita di chi quel giorno ha messo in tasca ben poco. Secondo me vengono attirati nel giro con un po' di soldi quando sono giovanissimi (e quindi non incarcerabili) e quando i loro desideri possono essere esauditi da cifre con due (massimo massimo tre) zeri, poi; quando riangono stretti ben bene alla rete di spaccio, i soldi cominciano a diminuire fino al limite della fame, così sono spinti a diventare più intraprendenti (no... non ho mai spacciato in vita mia, me lo immagino perché fanno così con i venditori e con i brokers della borsa).
Insomma: per la strada o noi o loro, è la legge del mercato.
Non solo. Quello che mi ha colpito della scena è che i due (o tre) spacciatori stavano facendo esattamente la stessa cosa che facevo io. Difendevano il loro territorio. D'altra parte, erano stati lasciati in pace così tanto tempo e loro se lo erano preso proprio perché non lo voleva nessuno. Anch'io al loro posto mi sarei incazzato!
Vi farò ridere, ma lì per lì ho dovuto anche chiedermi se fossimo noi nel giusto. Dovete capirmi: sono cittadino di un paese dove essere un immigrato è un reato, e per un cittadino onesto è un dovere denunciarne la presenza (anche se si è il suo medico o il suo insegnante); mentre non è reato truffare, mentire e – in molti casi – rubare. Credo in una religione in cui si dice che l'aborto è sempre omicidio mentre bombardare dei bambini può anche non esserlo. È andata a finire che devo valutare le cose caso per caso, senza mai dare per scontato di essere io dalla parte della ragione (diciamo che quando il cardinal Ratzinger – persona di grande intelligenza – un giorno prima di diventare papa ha letto il discorso sulla “navicella della chiesa squassata dalle onde del relativismo” mi sono gasato nel pensare che a soffiare c'ero io). Così, di fronte ai due spettacolini contrapposti, mi sono chiesto spassionatamente da che parte stesse il giusto. Ma la risposta, per una volta, era facile: il giusto sta dala parte del gruppo che cerca di dare benessere al maggior numero di individui e io non sono ancora così bravo in matematica per fare i calcoli relativi ai 6 miliardi di persone che abitano il pianeta, ma lì nel vicolo il problema era banalmente dimostrato. Da una parte c'erano una quarantina di residenti mediamente felici (non dico che fosse il Carnevale di Rio, ma una simpatica festicciola, sì) e dall'altro tre spacciatori incazzati che sbraitavano e se ne sono andati quando hanno visto che non riscuotevano così tanto interesse.
Se i cani segnano il loro territorio pisciando sui muri, e i malintenzionati (chiamiamoli genericamente così qualunque sia il ivello di cattiveria delle loro intenzioni) lo fanno con le risse, le persona di buona volontà (chiamiamole genericamente così per poca o tanta che sia) lo fanno semplicemente andando per la strada; e, credetemi, non è poi così facile nei difficili tempi che stiamo attraversando.
È per questo che quando ho sentito che, esattamente il giorno dopo la bella iniziativa di Via Pré, c'è stata una brutta rissa davanti alla Commenda – che tra l'altro ha coinvolto uno degli organizzatori della manifestazione del giorno prima che passava di lì casualmente assieme al figlio – invece di pensare (come sembra abbiano fatto tutti) che siamo dei poveri illusi perché violenza e delinquenza sono incontrollabili nel centro storico, mi sono detto: “Accidenti, per arrivare ad una replica così violenta, la festa di ieri deve aver funzionato sul serio!”
Sbagliavo. Un conto è lo spettacolino di un alterco fatto da due spacciatori infastiditi dal tramestio nel “loro” territorio, un conto è la rissa a bottigliate che si è scatenata la sera scorsa. I mezzi di informazione, cavalcando il contrasto tra le immagini della “festa multietnica” con tanto di autorità e quelle di una rissa stile Bronx, non hanno pensato che insistendo sul legame tra le due vicende potesse instillare l'idea che non fosse una coincidenza (e io, lo confesso, sono un grande appassionato di dietrologia).
Per fortuna – ma ci starebbe anche un purtroppo – non è così. La rissa era davvero una coincidenza. Anche se la “pericolosità percepita” del centro storico è infinitamente maggiore di quella reale, le risse sono all'ordine del giorno e con i tempi di crisi che ci attendono sono destinate ad aumentare. E quella di Pré ha ottenuto l'interesse della cronaca solo perché avvenuta quasi in concomitanza con la festa del giorno prima.
Quest'ultimo fatto è però quello che ci deve far pensare. La festa ha avuto un tale risalto da dare interesse alla rissa (e non il contrario) e, quindi, anche se la rissa non ne è stato il riflesso condizionato, il discorso sull'importanza simbolica di simili manifestazioni rimane inalterato, non foss'altro perchè ha portato all'attenzione del pubblico una serie di problemi anche più vasta di quanto ci si proponesse inizialmente.
Per concludere, se è importante la presenza delle forze dell'ordine in zona (molto meglio i poliziotti di quartiere delle ronde di alpini, volenterosi ma spaesati) ed è probabilmente inutile quella delle telecamere (per la maggior parte finte e comunque inutilizzabili per identificare chicchessia), fondamentale è il fatto che la gente ritorni per strada e conosca i propri vicini. E soprattutto, che impari a non averne paura.

 
Max Beckmann (1884 - 1950)
La Notte (1919)
Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen


sabato 24 settembre 2011

Pillole del post precedente



Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Il poeta povero (1839)
Neue Pinakothek, Monaco di Baviera
 

Su Barcellona
Negli anni Ottanta, a Barcellona hanno iniziato un vasto processo di rinnovamento del centro storico basato su piccoli interventi di risanamento puntuali, al limite dell'arredo urbano, nell'obiettivo di innescare un circolo virtuoso di risanamento. L'operazione ebbe un grande successo culminato nelle grandi opere per le Olimpiadi del '92; poi la frenesia immobiliare degli anni Novanta ha cambiato le carte in tavola: gli immobiliaristi avevano fretta di costruire e vendere e il processo di rinnovo urbano si è orientato su opere di demolizione e ricostruzione, la cui riuscita era da ascrivere più agli interventi precedenti che ad una loro intrinseca bontà progettuale. La crisi del 2007 ha fermato tutto... fortunatamente. Genova e Barcellona hanno molti tratti in comune (forse sarebbe un bell'argomento per un post) e sarebbe il caso di trarre qualche insegnamento dalle loro esperienze.

 attribuito a Carl Spitzweg (1808 - 1885)
L'abbaino (1849)
Collezione privata

Sulle case del Ghetto
Per un motivo che mi sfugge, Genova odia il suo Ottocento. Forse perché in quel periodo i genovesi emigravano per viaggiare per il mondo: Mazzini girava un po' dappertutto (“mi dite che Mazzini è in Alemagna /mi dite che è tornato in Inghilterra/chi lo vuol sugli altari e chi sotterra”), Bixio è morto mntre navigava al largo dell'Indonesia, Garibaldi è emigrato prima a New York e poi nel Paranà... per dare un'idea di quanto questo luogo si trovi in capo al mondo, pensate che il posto dove hanno dato una cattedra universitaria a Scilipoti (non è una battuta)...
Eppure è stata un'epoca di grandi successi e di splendidi monumenti (uno su tutti: Staglieno) che puntualmente vengono lasciati marcire perché l'unica cosa che vale la pena salvare è il Medio Evo.
Allora il Ghetto è da salvare? No... il Ghetto è ottocentesco: nell'Ottocento qualche abile imprenditore ha comprato vecchie case, qualcuna ancora con i danni del bombardamento del Re Sole, e le ha rifatte svuotandole dall'interno. Dato che erano gente seria, gli alloggi erano costruiti sul modello di quelli dell'alta borghesia Fecero un così buon lavoro nel coniugare vecchio e nuovo, che ancora oggi la gente pensa al Ghetto in termini di vicoli “medievali”. Non sono tanto sicuro che un architetto (o un imprenditore) dei nostri giorni si dimostrerebbe altrettanto in gamba.


Carl Spitzweg (1808 - 1885)
L'ipocondriaco (1839)
Neue Pinakothek, Monaco di Baviera


Casa dolce casa



Roy Lichtenstein (1923 - 1997)
This Must Be The Place (1965)
Museum Of Modern Art, New York

Nel libro Il quartiere del Ghetto di Genova. Studi e proposte per il recupero dell'esistente, cur. A. Buti, Nardini 2008, trovo un'interessante disanima sulla situazione del quartiere, redatta in modo molto “professionale” (non è ironia, è un complimento spassionato). Qua e là emergono tuttavia frasi preoccupanti, come quando un professore di progettazione sembra invocare l'esempio di Barcellona, dove si è spianato un intero quartiere grande quasi quanto il Ghetto e lo si è riedificato in forme moderne. Bè... la qualità della vita degli abitanti delle aree rinnovate di Barcellona non è cambiata, ma le case sono più brutte. E non è un giudizio personale: non c'è niente di peggio di una costruzione che appare già fatiscente dopo pochissimi anni.
Almeno, quelle del Ghetto sono fatiscenti dopo cento e passa anni. Dà un certo tono...
Mettiamo un attimo i puntini sulle i... a Barcellona il Raval, una volta si chiamava “Barrio Chino” e ai tempi della dittatura era considerato il quartiere più pericoloso della città. Certo vi abbondavano ladri e delinquenti, ma anche gli anarchici (prima che si estinguessero) e i comunisti. Insomma, Franco non era particolarmente amato; ma diciamo che gran parte dell'infamia dl quartiere derivava dal fatto di trovarsi sul lato sbagliato della Rambla (ed Eusebi Guell fece costruire a Gaudì il suo palazzo proprio lì perché era un tipo eccentrico quanto tosto). Con la fine del franchismo, il quartiere si risollevò più o meno come tutta la Spagna, ma la nomea rimase, spingendo i pianificatori a far piazza pulita del vecchio Barrio Chino, e con un'operazione quanto mai significativa recuperarono il vecchio nome ma demolirono le vecchie case. I sogni di gloria e di gentryfication degli immobiliaristi si sono infranti con la crisi del 2007 e il risultato è un posto triste e anodino.
Ma torniamo adesso al Ghetto. Come il vecchio Barrio Chino, anche il Ghetto non ha un nome proprio edificante, e credo che la fama di pericolosità che ho spesso avvertito derivi principalmente dal nome. Sia detto per inciso, a me piace così. Non vorrei che qualcuno recuperasse un toponimo medievale dal libro di Poleggi. Oppure pensate ad un acronimo come a New York... invece che SOHO (SOuth HOuston Street) o NOLITA (NOrth Little ITAly) qualcosa tipo MESONU (quella MErda SOtto la NUnziata). No... Ghetto mi piace. Sa di internazionale e di cittadino assieme.
Per quanto riguarda la delinquenza, lo confesso... da qualche anno che sono qua ho visto solo spaccio (a volte poco, a volte tanto, a volte decisamente troppo) e una volta (ma sono sicuro che ce ne saranno state di più) ho assistito ad uno scippo. Ah... ci sarebbero molti clandestini, cosa che, a quanto ne ho capito, in Italia costituisce reato. Per quel che riguarda la prostituzione, sinceramente dal punto di vista legale, non ci ho ancora capito niente. Quello che so è che nel condominio dove abito nessuno è mai stato arrestato o inquisito (una percentuale dello 0 %), mentre nel Parlamento italiano oscilla tra il 6 e l'8 (secondo alcune stime il 10). Quindi, secondo questa discriminante, prima del Ghetto, dovremmo tirar giù Montecitorio (salviamo il fregio di Sartorio che è pompiere ma mi piace) e Palazzo Madama.
Al di là degli scherzi, quando ho letto qualcuno che proponeva di “fare come a Barcellona”, prima ho pensato ad una politica di piccoli interventi puntuali di riqualificazione – più di arredo che di edificazione – come aveva fatto Bohigas negli anni Ottanta (e con ottimi risultati) e solo dopo ho capito che parlava di ruspe...
Intendiamoci, nel Ghetto ci sono alcuni isolati seriamente ammalorati da un punto di vista strutturale... nel centro storico ce ne sono meno di quel che si pensi, ma ce n'è... e quelli vanno monitorati con attenzione, Se il loro recupero risultasse antieconomico, bisognerà procedere ad una loro ricostruzione.
Qualcuno dice che, dato che dal punto di vista storico e architettonico non valgono niente, non sarebbe un gran danno demolirli assieme a quelli che gli stanno a fianco. Ne siamo sicuri?
A Genova abbiamo già demolito la vecchia caserma dei pompieri davanti a Sarzano, perché non valeva niente né storicamente né architettonicamente; adesso al suo posto c'è un campo di calcetto in sintetico e un parcheggio. Mah.... Vogliono demolire il Silos Hennebique perché non vale niente né storicamente né architettonicamente, e al suo posto tirar su un “qualcosa” il cui progetto e la cui destinazione d'uso cambiano di continuo, quindi prepariamoci a un campetto di calcio in sintetico e a un parcheggio.
Da un po' di tempo ho l'impressione che chi sentenzia la mancanza di interesse storico o architettonico negli edifici spesso ciurli nel manico... La vecchia caserma dei pompieri era una costruzione che poteva piacere o non piacere, ma era comunque caratteristico di un'epoca, e poi, per un certo tempo, era stata utilizzata per accogliere le famiglie di emigranti che arrivavano a Genova in attesa di partire per l'America. Un bel pezzo della nostra storia. Oggi non avete idea di quanti sono i turisti americani o brasiliani che vengono in città per vedere il porto da cui erano partiti i loro nonni e, forse, quello sarebbe stato un posto che gli sarebbe piaciuto vedere (dei patiti di musica che vagano per il Centro dei Liguri alla ricerca della casa natale di Paganini non parlo nemmeno)
L'Hennebique, da parte sua, architettonicamente parlando è ancora un titano: quando venne costruito era il più grande edificio in cemento armato del mondo; nel 1927 fu l'unico edificio italiano ad essere citato nell'epitome sulle più importanti costruzioni del tempo redatta dal Platz, uno dei testi più influenti di tutta la storia dell'architettura moderna. E, storicamente, fu nientemeno che il granaio della nazione... è vero che serviva agli imprenditori per accumulare scorte così da venderle nei momenti più favorevoli, ma andate a vedere l'aspetto che ha dalla punta dei magazzini del cotone: immenso. Come diceva Platz, era l'unico edifico italiano che potesse stare alla pari con i modelli degli antichi romani. Oggi vorrebbero buttarlo giù.
Per questo ci andrei piano nel giudicare gli edifici del Ghetto irrilevanti. Anche loro hanno la loro brava storia. Si tratta di costruzioni medievali riattate nel corso del XIX secolo, e quelli che ci misero le mani erano maledettamente bravi. Pensate cosa significa prendere un palazzo antico e ricostruirne gli appartamenti dall'interno senza far venir giù tutto. Se fosse facile, oggi cercherebbe di fare la stessa cosa invece di butta giù tutto. Inoltre, dato che erano bravi, per gli appartamenti ripresero la distribuzione degli alloggi altoborghesi anche se erano case per operai; allo stesso modo, per le finiture chiamarono quegli stessi artigiani che in città lavoravano per committenze ben più prestigiose, come i palazzi attorno a Via XX settembre o quelli di Circonvallazione a mare. Sotto l'intonaco di casa mia, spuntano fregi dipinti... fregi dipinti! In una casa operaia. All'epoca, a Genova, gli alloggi popolari erano qualitativamente tra i migliori d'Europa. D'altra parte il Comune mandava i suoi funzionari in giro per il mondo a studiare quali fossero le soluzioni più efficaci per i problemi costruttivi o urbanistici. Gli architetti e gli ingegneri di quel tempo sono stati quasi completamente dimenticati: Severino e Renzo Picasso, Cesare Gamba, Cesare Parodi... Secondo me, qui nel Ghetto ci mise le mani Francesco Ponte, non un ingegnere, ma un imprenditore specializzato nel ristrutturare edifici fatiscenti, magari accorpandoli e svuotandoli... però per esserne sicuro dovrei fare un po' di ricerche d'archivio che una volta o l'altra mi metterò in testa di fare.
Insomma, anche le case del Ghetto hanno una loro storia, e sono infinitamente più comode e meglio costruite rispetto a qualunque analogo costruito negli ultimi quarant'anni (vedere per credere). E non sto parlando dei palazzi targati UNESCO di Via Lomellini o delle dimore nobiliari di Via del Campo ma delle case sine nobilitate di Vico Croce Bianca, dove un qualche imprenditore senza nome dell'Ottocento è stato in grado di operare una ristrutturazione che oggi farebbe tremare qualsiasi architetto. Ne ho visto qualche esempio in giro nel Centro Storico e mi sono terrorizzato, ma questa è un'altra storia...


Maurits Cornelis Escher (1898 - 1972)
Relatività (1953)

venerdì 23 settembre 2011

Pillole per chi non vuol leggere troppo


Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Il topo di biblioteca (1850)
Museo Georg Schaefer, Schweinfurt


Sul Ghetto
Parafrasando Kennedy: “T'attacchi se aspetti ce lo Stato farà più qualcosa per te; pensa piuttosto a cosa puoi far tu per lo Stato con i brandelli di ciò che sarà costretto a buttar via”

Sulla partecipazione dei cittadini alla progettazione urbana
Il concetto di “percorso partecipato” che oggi va tanto di moda, nella realtà finisce per spesso per tradursi nell'espressione scocciata di un qualche funzionario che già deve fare miracoli per far quadrare il bilancio. Sarebbe meglio che i comitati di quartiere si adoperassero nella fase di gestione piuttosto che in quella progettuale, in modo da evitare la solita situazione di strutture bell'e pronte, vuote perché nessuno le fa funzionare (per quanto abbia sempre il dubbio che i comitati siano oggi usati in modo “terroristico” dalle parti in causa per favorire veti incrociati)

Sull'immondizia
Chi è senza peccato, getti per terra la prima cartaccia... trovare sacchetti dell'immondizia debitamente legati e abbandonati in strada fa però pensare che a mancare siano più i cassonetti che la buona volontà.

Sui ponteggi
“Junk” in inglese è un termine polivalente, che può indicare “roba vecchia” e “carne sotto sale”, ma soprattutto “spazzatura” o “droga”. Da qualche anno gli architetti indicano come “Junk-space” le aree abbandonate, e i ponteggi abbandonati (perché non più in uso o perché è finito il turno) sono i Junk space più junk di tutti. La cordata spazzatura-piscio-droga si impadronisce di queste aree celate alla luce del sole in men che non si dica, deinde: sarebbe bene eliminare tutti i ponteggi abbandonati e non necessari alla sicurezza strutturale degli edifici, e un po' di problemi sarebbero risolti.



Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Arriva il sindaco!  (1870)
Collezione privata

Sulla politica
Il Ghetto protegge e nasconde; non tanto i delinquenti (che ce n'è fin pochi) quanto tutti quelli che, per un motivo o per l'altro, non si riconoscono nei modelli culturali dominanti. Basta fare il confronto con gli amici del comitato di Via Pré: il più eterodosso tra loro sembrava uscito fresco fresco da un programma mattiniero per famiglie di Rai Uno. Per un motivo o per l'altro il Ghetto è infinitamente meno “politicizzabile”, nel bene o nel male.


Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Nel Ghetto (1860c.)
Museo Georg Schaefer, Schweinfurt


Sull'integrazione
Per quanto strano possa sembrare, non è un caso che in una città come Genova trans e fedeli musulmani si trovino a condividere spazi attigui: hanno tutti un particolare bisogno di riservatezza, quiete e rispetto che questa città non sembra disposta a dargli (e qui, regolarmente mi incazzo pensando che trecento anni fa le cose erano diverse sotto tutti i punti di vista e Genova, allora, era una città dal respiro mondiale). Il Compassionevole e Misericordioso perdoni questo mio accostamento, ma dal punto di vista dl quartiere, i due gruppi sono i più consistenti numericamente e i meglio organizzati. Senza il loro coinvolgimento si po' fare poco.

Sul valore immobiliare
In qualunque città d'Europa (ma non in America o in Asia, e questo è interessante...) un'area così centrale avrebbe una discreta appetibilità immobiliare. C'è sempre il pericolo che qualcuno si svegli e decida che è un peccato che qua nel Ghetto abiti gente come noi (e i ripetuti accenni al decoro da parte della Pubblica Amministrazione mi fanno sempre pensare a quello). Quindi, quando buttate anche solo una cicca per strada, pensateci.

Sull'economia in generale e il rapporto con le istituzioni
Avete visto in TV il dibattito tra Don Gallo e un nostro ex ministro che oggi pare essere a capo di una “Task Force” (Mio Dio aiutaci!) di economisti che stanno studiando la crisi. Beh, su Il Fatto Quotidiano hanno scritto che Don Gallo sembrava un esagitato mentre l'ex ministro sembrava una persona responsabile. Ora... Don Gallo è partito un po' tanto sull'aggressivo, ma le cose che diceva erano comprensibili e sensate... l'ex ministro ha inanellato una serie di “supercazzole” prive di qualsiasi attinenza alla situazione attuale, tra cui un significativo sproloquio sulla buona salute economica dell'Italia (andatevi a vedere il link sul mio post del 22 settembre: la stessa persona diceva le stesse cose dell'economia americana, qualche mese prima del tracollo del 2006-2007) e un riferimento a San Francesco particolarmente offensivo (oltre che privo di qualsiasi fondamento economico). Morale: oramai non basta più aver ragione per essere ascoltati e, soprattutto, per sembrare responsabili.


Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Mercoledì delle ceneri (Arlecchino imprigionato) (1855 c.)
Staatsgalerie, Stoccarda


giovedì 22 settembre 2011

Via del Campo c'è un cassonetto...

Michelangelo Pistoletto (1933 - vivente)
Venere degli stracci (1967)
Museo di Arte Contemporanea Donna REgina, Napoli

Non sei neanche a metà mattina e vedi che S&P ha declassato il rating di 7 (sette) tra le maggiori banche italiane, che lo spread con i titoli tedeschi è sopra 410 e che il governo dà la colpa a non ben precisati circoli anglofoni che speculano contro l'Italia (ah, la perfida Albione!). Ripensi con terrore alle parole sentite in televisione da un ex ministro invitato ad un dibattito con Don Gallo e presentato come il responsabile della Task Force di cervelli che dovrebbe tirar fuori l'Italia dai guai. Rimani un po' dubbioso di fronte alla sicurezza con cui l'ex ministro sosteneva che la posizione dell'Italia era in realtà solidissima. Brrrrrivido! Andate a leggervi l'articolo del 2005 dove la stessa persona affermava che anche  l'economia americana era solidissima e andava a gonfie vele, giusto un anno prima (per la precisione diciotto mesi prima) dell'apocalisse dei mutui subprime (lo trovate all'indirizzo http://www.difesa.it/Ministro/Compiti_e_Attivita/Articoli28/2005-01/Pagine/Dollaro_addio_per_l_Economist_191.aspx ).
Io li ho visti gli effetti di quella crisi... nelle zone residenziali di Washington....o ancora in uno dei quartieri più belli Chicago (quelli attorno ad Astor Place). La stessa Chicago dove si trovano università formidabili (fomidabli sul serio e non ironicamente) dove ha studiato anche il nostro ex ministro. Ebbene, nel 2010 quella zona era soltanto un susseguirsi di case vuote e di cartelli di vendita. Gente che inscatolava le sue cose e scappava su un taxi. Persino crene sui muri per portar via i fili di rame (!!!) in modo da rivenderli come metallo prezioso. Ma soprattutto mettevano tristezza le ghirlande natalizie rinsecchite (era aprile) abbandonate da famiglie che avevano dovuto lasciare la casa dove vivevano in fretta e furia perché, all'improvviso, la macchina tritacarne dell'economia ha sentenziato che vivevano al di sopra delle loro possibilità dopo avergli fatto credere per anni il contrario.
L'Italia, al di là delle incrollabili certezze del governo, rischia di essere un po' nella stessa situazione... ma – fortunatamente – il Ghetto no. Il Ghetto non è un quartiere "bene" e una riduzione nel volume dell'economia nazionale farà un bel po' di danni, ma non quei drammatici sconvolgimenti che ho visto in America. Arriverei persino a dire che, nel Ghetto, le cose sono a volte più facili che dalle altri parti.
Vi faccio un esempio.
Da un po' il comitato di quartiere si sta occupando del problema dell'igiene urbana, che è il modo elegante per dire che cerca di tirar via un po' di rumenta dai vicoli. E già che ci sono, sentono anche le opinioni di quelli che abitano o lavorano nel quartiere, così per individuare dove si vanno a creare le criticità (forma elegante per “montagne di rumenta”). Non sorridete... lo so anch'io che basterebbe andare a vederlo... ma è capire come e perché si formano che forse può risolvere il problema. È questo che distingue un comitato di quartiere da un governo della Repubblica.
Così si cerca di raccogliere tutte le segnalazioni possibili e, tra queste, ce n'era una particolarmente allarmata da parte di una delle fornaie di Via del Campo (che secondo me fa dei dolci molti buoni, con i babà che arrivano al livello di poesia) che lamentava come una colonia di topi stazionasse ormai stabilmente attorno al cassonetto dove lei conferiva le immondizie (forma elegante per “cacciar via la rumenta”) e ormai quasi le impediva di avvicinarsi, quasi fosse diventato territorio “loro”.
Non si era ancora spenta l'eco sinistramente medievale di questa comunicazione (I ratti! La peste! Il ruolo degli umani come specie dominante seriamente minacciato!) che è arrivato un avviso da parte dell'addetto dell'AMIU che si occupa di quel cassonetto: se non fosse cessato il conferimento di sacchi di pane raffermo, il numero dei topi attirati da tanto cibo sarebbe aumentato fino a rendere molto difficoltose le operazioni di smaltimento (forma elegante per dire che se non la smettiamo di dar da mangiare ai topi, loro lì non ci mettono più piede).
Non sorridete. La fornaia in questione dovrà smaltire l'invenduto un po' più distante, e questo significa che potrà dedicare meno tempo ai suoi babà e che tale distrazione potrebbe equivalere ad un abbassamento di rating da “poetici” a “buonissimi”. C'è tanto bisogno di poesia in questo mondo!
Piuttosto riflettete... provate a sostituire alla parola “topi” la locuzione “circoli anglofoni che speculano contro l'Italia”, non vi sembra una storia che avete già sentito? E pensate se fosse possibile mandare qualcuno del comitato di quartiere a parlare con la Task Force di economisti del governo e spiegargli che, probabilmente, buona parte delle cause di questa crisi sono da attribuire a loro a loro.
E a chi se no? Alla fornaia di Via del Campo? Lo so, un confronto del genere non ha senso: se l'Italia fosse un babà, il suo rating attuale sarebbe “mangiabile, ma sa di polistirolo”, da cui si evince che la nostra fornaia fa il suo lavoro meglio dei nostri manager finanziari. D'altra parte uno non va fino a Chicago per sfornare babà.
Eppure, pensateci: una cosa del genere stava quasi per succedere quando Don Gallo ha provato a spiegare in televisione che se il nostro esecutivo avesse avuto ameno una parvenza di politica economica seria, forse oggi non ci sarebbe bisogna né della Task Force dell'ex ministro né dell'opera della Comunità di San Benedetto.
La risposta è stata - oggettivamente - una sequela di frizzi e pinzillacchere, tra cui uno particolarmente fastidioso su San Francesco. E dire che se fossi il rappresentante di un governo sta per varare una manovra improntata ad una sobria austerità, io di San Francesco ne parlerei bene. Forse era un economista più lungimirante di loro.

PS
La battuta su San Francesco recitava più o meno “Andando a vedere le teorie liberiste, il papà di San Francesco ha fatto del bene alla gente assai più del figlio: Pietro di Bernardone ha almeno fatto la ricchezza di chi lavorava per lui, mentre San Francesco ha portato la povertà a tutti quelli che lo hanno seguito”. La cosa non farebbe neppure ridere se non fosse che due serissimi studiosi di teologia medievale, Giovanni Ceccarelli e Giacomo Todeschini, sostengono da qualche anno la tesi secondo cui l'origine del liberismo in economia è da ricercare nel pensiero francescano medievale. Certo, in Vaticano questa tesi è abbastanza contestata, ma sembra proprio che nel mondo accademico stia trovando diversi sostenitori, con una certa abbondanza di pubblicazioni in merito. Secondo il mio modesto parere, l'attitudine di questo governo nel capire l'origine dei problemi in cui ci stiamo dibattendo si vede anche da questi dettagli
Giotto (?)
La predica agli uccelli (1290 - 1295)
Basilica superiore di San Francesco, Assisi

Il pericolo non è il mio mestiere (favola con morale)


Gustave Doré (1832-1883)
Wentworth Street
incisione tratta da London, A Pilgrimage (1872)

Non amo il pericolo. Non amo le cose pericolose e meno che mai i posti pericolosi. Quando sciavo, evitavo le piste nere e in montagna, se in un sentiero incontro l'indicazione “per esperti”, cambio strada. In Siria, la mia guida mi aveva invitato a fare una capatina nell'Iraq settentrionale dove, a sentir lui, era tutto tranquillo: naturalmente ho detto di no.
Ci ho pensato qualche giorno fa quando, sotto casa in Vico della Croce Bianca, ho incocciato una coppia, madre e figlia, impegnata in un evidente sopralluogo “immobiliare”. Fingendomi uno sfaccendato - cosa che a dire il vero mi riesce molto naturale – mi sono appoggiato al muro più vicino per ascoltare la loro conversazione.
“Guarda che degrado!”
“Che puzza!”
E via così.
In effetti, era la fine di luglio e il vicolo, come quasi tutto il centro storico, era piuttosto maleodorante, ma il tono con cui le due stavano confabulando era francamente irritante, soprattutto nel modo pappagallesco con cui usavano il termine “degrado”. Penso fossero convinte che la zona non era degradata, ma “degradante” e che tale effetto si estendesse naturalmente anche agli abitanti. Avevo quasi voglia di interromperle dicendo: “Signore, nessuno vi costringe a comprar casa nel centro storico se non ci siete tagliate. Esistono un sacco di altri quartieri dove potrete trovare quello che fa al caso vostro”.
Invece fu la madre a rivolgermi la parola, dicendomi in tono brusco: «Ma... questo posto... ma è sicuro?»
Ora...come dicevo prima, io non amo i posti pericolosi. A qualcuno piacciono, ma a me no. Tuttavia mi è capitato di vederne qualcuno, generalmente dal finestrino di un taxi o del metrò: qualche zona del Bronx, il South Side di Chicago, alcune zone della banlieue di Parigi o del centro di Barcellona (che oggi, tra l'altro, sono diventate quartieri per fighetti). Una volta ho addirittura attraversato Vanazdor (in Armenia) poco dopo un regolamento di conti della mafia locale: una lunga distesa di casermoni socialisti mentre per la strada brulicavano gli agenti della polizia armena con i loro buffi cappelloni a disco in stile sovietico e meno buffi kalashnikov sotto braccio.
Ebbene: mai e poi mai mi sarebbe passato per l'anticamera del cervello di rivolgere la parola a chicchessia, quindi men che meno di chiedergli se quello era un posto “sicuro”. Accidenti: quando attraversi un posto pericoloso, cerchi di appiattirti sul muro o di sparire sul sedile della macchina dove ti trovi, guardi solo in avanti e cerchi di lasciarti il quartiere alle spalle il più presto possibile, senza voltarti indietro.
A questo punto, che gli potevo rispondere? Che il solo fatto che si fosse sentita di farmi quella domanda era già di per sé la risposta? O non sarebbe stato meglio un bel racconto truculento con rapine e spacciatori? Alla fine – è la mia natura – ho impapocchiato un discorso obiettivo sui pregi e i difetti dell'area e su come la dipendenza dei valori immobiliari della zona dipendano in modo pesante dalle scelte dell'Amministrazione e che pertanto potrebbero avere una forte volatilità. Ero abbastanza sicuro che non ci stessero capendo un acca e che, forse, era meglio dar fondo alla stura su droga e delinquenti... ma ormai avevo cominciato.
Alla fine se ne sono andate, e io mi sono ritrovato a riflettere su come la “pericolosità percepita” nel Ghetto (e nell'intero centro storico) sia abnormemente accresciuta dalle obiettive condizioni di degrado. Ma che cos'è il degrado?
Mi ricordo che a Washington (città con una popolazione pari a quella di Genova e con un tasso di omicidi circa otto volte superiore) le zone di periferia mettevano tristezza a causa della crisi immobiliare (ghirlande natalizie abbandonate, giardini che si intuiva fossero stati amorevolmente tenuti trasformati in giungla urbana) ma che proprio le tracce di questa cura finivano per lasciare rassicurati (e in effetti, a Washington non mi è capitato nulla). A Montréal la mia amica poliziotta mi ha portato a fare un giro dei vari quartieri cittadini e, quando mi ha portato in quello più “pericoloso” (quello dove si facevano arresti tutti i giorni) sono rimasto colpito da quanto quella distesa di villette dai prati ben tenuti somigliasse ad Albaro. Quando feci notare che il quartiere era molto pulito, lei mi guardò sbalordita dicendomi che, solo perché uno è un delinquente, non per questo non dovrebbe tenere al posto dove abita.
Ecco... quello che rovina il centro storico è la totale mancanza di manutenzione. Il fatto che sia ancora un centro “vivo” e non soltanto turistico comporta certo un certo grado di “vissuto” che è estraneo a quei centri francesi o tedeschi ripuliti fino all'osso, con le loro brave piazzette su cui si aprono gelaterie, librerie esoteriche e negozi di balestre. Nessuno di noi vorrebbe vivere in un posto del genere, non che abbia qualcosa contro i libri fantasiosi o le balestre giocattolo (e meno che mai contro i gelati), ma un centro storico conciato in quel modo finirebbe per perdere la sua funzione fondamentale, che non è quella di affascinare i turisti ma di funzionare come una “camera di decompressione” in cui possono trovare rifugio tutti coloro che, per un motivo o per altro, rischiano di trovarsi spaesati in una città divisa a compartimenti stagni come Genova. Il centro storico è, in pratica, l'unica zona della città (e sono relativamente poche in Italia) dove la diversità è tutelata. Solo che è tenuto veramente male.


LA FAVOLA INSEGNA CHE...
gli italiani si credono che speculare sugli immobili sia una cosa facile. Figuriamoci: è un incubo gestirli, non parliamo di specularci sopra. È anche vero che, con un mercato così pesantemente influenzato dai chiari di luna del settore pubblico (dalla pianificazione alla tassazione), la gente si metta in testa cose strane. Non esiste la casa perfetta, centrale, decorosa e che magari costi anche poco: ogni immobile ha pregi e difetti che andrebbero attentamente valutati. Naturalmente, in un paese dove l'economia finanziaria è una steppa selvaggia attraversata da orde di saccheggiatori, tutti buttano negli immobili i loro risparmi (magari senza pensare che anche quella non è una situazione troppo diversa).
Anche se a prima vista non sembra, il problema della proprietà è strettamente connesso a quello del degrado: con il progressivo restringersi dei margini di guadagno, la messa a reddito di un immobile tende a diventare sempre più speculativa e sempre meno conservativa: in soldoni, si tende a massimizzare il profitto (magari attraverso il subaffitto ad extracomunitari) e a minimizzare gli interventi di manutenzione. È il tipico fenomeno della “proprietà assente”, già ampiamente descritto
in innumerevoli saggi sulle grandi città americane, e il risultato di questo processo è inevitabilmente il degrado: i residenti (proprietari o inquilini) finiscono per perdere fiducia sulle possibilità di rivalutazione dell'area in cui abitano e, non diversamente dai “proprietari assenti”, tenderanno a limitare al minimo indispensabile gli interventi di manutenzione e a rimandare quelli di risanamento, fino ad arrivare a vendere, con tutta probabilità proprio ai “proprietari assenti”, che vedranno così aumentare la loro quota di immobili “problematici”.
Alla fine perde interesse anche l'Amministrazione Pubblica, soprattutto se l'area in oggetto è abitata da stranieri (ovvero gente che non la vota), e dato che la progressiva perdita di valore dell'area finisce per creare un differenziale di valore tale da renderla appettibile per la speculazione (si parla in questo caso di soggetti di una certa importanza, non certo dei piccoli risparmiatori) si verranno a creare gruppi di pressione volti da una parte a dissuadere l'Amministrazione a fare qualsiasi intervento (“soldi sprecati”) e dall'altra a offrirsi “spontaneamente” di intervenire sull'area.
“Che male c'è?” ci si potrebbe domandare. Si tratta di un processo economico teso al rinnovamento e non di uno sfollamento imposto. Qualche problema però c'è.
Siccome è più facile fare il macellaio (o il serial killer) che il neurochirurgo, si sente sempre più spesso parlare di “sventramenti” piuttosto che di “interventi puntuali”; in parole povere, gli imprenditori tendono a buttare giù tutto in nome del nuovo, dato che demolire indiscriminatamente costa meno che recuperare. Ma quello che tirano su non sempre (anzi quasi mai) è di una qualità lontanamente paragonabile a quella che un tempo aveva ciò che è stato demolito. Detto in altra maniera, distruggiamo cose che non siamo più n grado di ricostruire in nome di presunte migliorie tutte da dimostrare. Faccio un parallelo urbanistico per rendere più chiaro il concetto: con la Fiumara il tessuto commerciale di Sampierdarena è stato praticamente distrutto e sono stati eliminati posti di lavoro consolidati e “sicuri” per avere in cambio un centinaio di posti come commessa o come cassiere (a tempo determinato). Allo stesso modo gli edifici moderni, specie se di edilizia pubblica o di natura speculativa, hanno spesso muri troppo sottili (e quindi richiedono molta più energia per essere riscaldati), serramenti troppo fragili o disposizioni cervellotiche. Gli impianti sono probabilmente più facili da montare o da gestire (spesso neanche quello), ma nel complesso le voci negative surclassano quelle positive.
E allora perché si fa? Perché è un affare. Anche se solo per pochi. Gli immobili hanno comunque un valore, dato dalla loro posizione. Nel centro storico si trovano – scusate la tautologia – al centro. Che in tutta Europa è l'area più ricercata (in America non è così, ma questo è un altro discorso) perché è quella da cui più facilmente si può accedere alle altre. Se si demolisce un edificio del centro (magari facendone ricadere gli oneri sulle comunità) e lo si ricostruisce... un po' alla buona, l'imprenditore si intasca per intero il plusvalore risultante (scusatemi la desueta terminologia marxiana, ma ho raramente trovato l'analisi del filosofo di Treviri così calzante come in queste operazioni).
Morale: ogni cartaccia buttata per terra è una cartuccia nella bandoliera degli speculatori. Non sono brutta gente, anzi, in una condizione politica normale e con un regime fiscale sensato sono figure assolutamente necessarie per il buon funzionamento di una società. Ma nella situazione malata che si è venuta a creare sembra che ne siano rimasti solo due tipi: i pescecani e le due donne di cui si parlava, ignare (ma forse nemmeno troppo) che parlare di degrado è il primo passo per fare un buon affare.

mercoledì 21 settembre 2011

Il cantiere misterioso


Pieter Bruegel il Vecchio
La Torre di Babele (1563 c.)
Kunsthistorisches Museum, Vienna

Da abitante del Ghetto, provo una spiacevole sensazione tutte le volte che qualcuno entra in Vico Croce Bianca e comincia a comportarsi in modo “coloniale”.
La cosa mi succede abbastanza spesso: ho sempre l'impressione che i perniciosi procacciatori di contratti su gas e telefonia che sciamano nel centro storico (e che si introducono proditoriamente nei portoni fingendo spacciandosi per operai), tutte le volte che entrano ne Ghetto ci prendano un po' per cretini, sbandierando slogan assurdi, tipo: “Noi di Gaz de France siamo produttori diretti” (non sapevo che la Francia avesse imponenti giacimenti di metano), oppure “Lo sa che adesso può risparmiare levandosi dalle fasce orarie” (qualche anno fa dicevano che con le fasce orarie avrei risparmiato). Capisco che è grazie a quell'infaticabile legione di centralinisti, piazzisti e addetti al volantinaggio che i nostri governanti possono andare a Bruxelles e dire al resto d'Europa che la disoccupazione in Italia non è poi così tanto preoccupante, capisco che sono dei poveri cristi come me e che devono pur lavorare, ma accidenti... devono proprio venire tutti sul mio pianerottolo.
Tuttavia, l'esperienza più seccante l'ho avuta quando sul pianerottolo sono arrivate le Istituzioni. Per la verità non era proprio il pianerottolo, ma il portone di casa: fu quando l'ex presidente della Circoscrizione Aldo Siri, accompagnato da un tecnico, arrivò in Vico Croce Bianca a spiegare ai cittadini residenti il progetto del Comune per un “centro di primaria assistenza” da realizzarsi proprio al pianterreno della casa dove abito. Credo che il nostro fosse uno dei pochi isolati in tutta Genova dove i condomini, non appena informati delle intenzioni del Comune, avevano reagito pensando che era meglio che tossicodipendenti ed extracomunitari (l'accoppiata standard degli ambienti degradati) avessero un posto dove andare piuttosto che sentirsi male in mezzo alla strada. Certo... di regola, il Comune avrebbe dovuto contattare l'amministratore affinché convocasse un'assemblea straordinaria per discutere gli interventi sulle parti comuni, ma non sembrava proprio il caso di stare a cavillare, anche perché, dalle sommarie descrizione che erano state fornite fino a quel momento, l'intervento avrebbe potuto in effetti essere qualsiasi cosa, da un ambulatorio a un cpt in miniatura. Benvenuto quindi a Siri e al suo tecnico che, anche se in modo un po' poco ufficiale, ci avrebbero illustrato cosa il Comune intendeva fare in casa nostra.
A dire il vero, la cosa non mi interessava un gran che: quando le istituzioni agiscono su una scala relativamente piccola, non è importante quello che hanno intenzione di fare, quanto piuttosto quello che faranno sul serio; per quel giorno avevo un impegno e non cercai di spostarlo. Così arrivai in ritardo.
L'esposizione del progetto era già stata fatta ma, a giudicare dalle facce perplesse dei residenti, credo proprio che non fosse stata di qualità molto superiore a quella dei piazzisti del gas di cui si parlava all'inizio. Ero appena entrato che qualcuno disse: «Fateli un po' vedere a lui i progetti, che è del ramo e insegna ad Architettura». E Siri replicò: «Ma non scherziamo».
Ci rimasi male.
Mi avvicinai al tecnico intento a squadernare le tavole di progetto, e gli feci timidamente notare che ero un residente, che effettivamente ero laureato in architettura e che, tecnicamente, insegnavo appunto ad architettura come professore a contratto. Come qualifica non sarà un gran che, ma si vedeva che non scherzavo.
Come alla mezzanotte delle fiabe, le tavole di progetto sparirono d'incanto: il tecnico mi rispose che non c'era più tempo e che tutti dovevano scappare. Per un attimo, ebbi quasi il timore che perdesse la proverbiale scarpetta nel vicolo, ma invece di lasciarmi una scarpa, il tecnico si congedò con una garbata minaccia: «Comunque, può trovare tutte le informazioni che vuole nei nostri uffici al Matitone»
Gira una leggenda urbana sul Matitone: pare che lo studio Skidmore, Owings & Merrill, filiale di New York, una volta incaricato del progetto abbia mandato a Genova un giapponese (anche se alcune versioni della storia parlano più generalmente di un asiatico) e che questo giapponese fosse andato letteralmente in visibilio di fronte al campanile di San Donato, giudicandone la forma ottagona come quintessenza della genovesità. Si era negli anni Ottanta, quindi in fase di imperante postmodernismo, pertanto simili storie potrebbero persino essere prese sul serio. Sia come sia, il grattacielo venne effettivamente costruito in forma di gigantesco prisma ottagonale e a capo del progetto doveva proprio esserci un giapponese, dato che non pensò affatto che, nella tradizione europea, i più famosi edifici a pianta ottagona sono Castel del Monte (che ancora oggi non si sa a cosa servisse) e il Panopticon di Bentham, una prigione studiata appositamente per far impazzire di terrore chi vi finiva recluso. Va detto, a onor del vero, che in America la storia è un po' diversa, ma non è il caso di fare una lezione sulle forme stereometriche nella tradizione architettonica americana... sta di fatto che, con simili premesse, non fa meraviglia che l'edificio sia rimasto vuoto per un bel pezzo fin quando non è stato acquisito dal Comune (gira che rigira, sempre a spese del pubblico va a finire...) Insomma, a nessuno fa piacere andare negli uffici al Matitone; chi lo fa deve essere animato da sentimenti forti, come l'interesse o la vendetta: di fatto i corridoi del Matitone sono pieni di persone intimorite dalla macchina kafkiana in procinto di masticare i loro sogni edilizi o da anziani delatori pronti a denunciare gli illeciti e le malefatte dei vicini.
Personalmente non ero né interessato, né vendicativo: c'ero soltanto rimasto male, ma me ne feci una ragione. Quindi non ci andai.
I lavori cominciarono immediatamente dopo, il cartello di cantiere venne debitamente affisso in modo che nessuno riuscisse a leggerlo e quando chiedevo a qualcuno ragguagli su chi fosse il direttore di cantiere o almeno i responsabile del procedimento mi veniva fatto il nome di funzionari contattabili, naturalmente, nel loro ufficio al Matitone. Non che fossi preoccupato per qualcosa: semplicemente mi incuriosiva il fatto che, pur abitando lì, non avessi modo di sapere quel che stavano facendo senza dovermi recare nel fatidico Matitone. Non ho la macchina e non amo prendere l'autobus; sì ci sarebbe la stazione di Via di Francia... ma i treni che si fermano si potrebbero contare sulle dita della mano di un monco.
Il regolamento condominiale di casa mia è piuttosto sommario e, dato che nessuno si era degnato di convocare un'assemblea, brancolavo nel buio: in pratica, secondo i termini del regolamento (credo risalente all'anteguerra) il Comune avrebbe potuto farci di tutto: un locale di quarantena per malattie infettive, una sede distaccata della SPECTRE, un presidio locale dell'ASTER (in ordine di pericolosità). La pagina internet dell'Urban Lab dedicata al Contratto di Quartiere del Ghetto parlava di un ambulatorio socio-sanitario (?) di una scuola materna (??) e di una residenza per giovani artisti (???). Quest'ultima definizione mi lasciava perplesso: esistono graduatorie per giovani artisti senza tetto?
Lo confesso: sono irriducibilmente ancorato alle desuete definizioni di destinazione d'uso e la lettura di quella pagina mi lasciò sconcertato non meno che se la Pubblica Amministrazione mi avesse spedito una raccomandata con su scritto “Sbiriguda, come se fosse Antani”. Invece ne arrivò una che informava i residenti che, grazie all'impegno del nostro battagliero consigliere di condominio, intervenendo sulle parti comuni della facciata il Comune avrebbe provveduto a mettere in sicurezza un camino svergolato, Venivano proposte tre alternative, sottolineando come se la decisione non fosse stata presa al più presto, il Comune avrebbe provveduto motu proprio alla prima soluzione, dal momento che il tempo stringeva e sarebbero scaduti i finanziamenti necessari ai lavori. Ero così contento che neppure me la presi per il fatto che il Codice Civile indica esplicitamente l'intervento sulle parti comuni come motivo di una necessaria assemblea, che naturalmente nessuno aveva convocato. Avevo finalmente capito a cosa erano destinati i lavori: il percepimento dei finanziamenti! E io che, alla fine, ero quasi preoccupato dal mistero che sembrava aleggiare attorno al cantiere.
Cos'altro dire? I lavori procedettero speditamente, il camino venne risistemato e gran parte del pianterreno dello stabile rimesso a nuovo. Come ci era stato detto fin dall'inizio, venne poi aperto un ambulatorio socio-sanitario. Ma che cos'è? Nessuno lo sa. È aperto due ore a settimana e quindi non ci va mai nessuno.

domenica 4 settembre 2011

Per fare un tavolo, ci vuole il legno

Caspar David Friedrich (1774 - 1840)
L'albero solitario (1822)
Berlino, Gemäldegalerie

Per fare il tavolo, ci vuole il legno...
Per fare il legno, ci vuole l'albero...
La cantava Sergio Endrigo quando ero piccolo, e io ancora mi commuovo se mi capita di ascoltarla. Eh sì, sono proprio un sentimentale dai gusti particolarmente infantili. Questo post vuole un po' seguire la stessa traccia della canzone, partirà dai tavoli della burocrazia finanziaria per arrivare ad alberi veri e propri che speriamo di piantare da queste parti. Il tragitto sarà forse un po' lungo, ma mi auguro davvero che riuscirà ad essere di un qualche interesse per chi lo leggerà.
Banchi di scuola e alberi vengono sagacemente accostati in uno spot irresistibile che termina con la memorabile affermazione secondo cui "Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti con i servizi". Forse ci sarebbe qualcosa da ridire, ma, in linea teorica il ragionamento è inappuntabile. Il problema è che nei trenta secondi di cartone animato si cerca di far passare l'idea di un'implicazione logica tra le due proposizioni, anzi, lo si afferma esplicitamente: "Se più persone pagano le tasse i servizi aumentano, ma solo se tutti le pagano questi servizi diventano davvero efficienti". Tutto ciò, purtroppo non è vero, cioè... magari potrebbe anche succedere, ma è perfettamente possibile che accada il contrario. L'ipotesi più probabile per il nostro paese e che aumenteranno le tasse (e non tutti vorranno o potranno pagarle) mentre i servizi si ridurranno drasticamente (e non tutti ne saranno beneficiati). Per quel che ne sappiamo, proprio per questo potrebbero diventare più efficienti. D'altra parte, Kennedy diceva che i cinesi scrivono la parola crisi accoppiando i caratteri che significano "pericolo" e "opportunità", e  Kennedy pagava i migliori ghost-writer dei suoi tempi. Chissà che questo probabile quanto imminente crollo nella quantità di servizi non possa rivelarsi un'oppotunità per la nostra Piazza Senza Nome. Prendiamolo come un buon viatico di fronte a un futuro quanto mai incerto.
Ma andiamo per ordine.
Lo stato italiano (cioé noi) al 31 dicembre 2010 aveva un abominevole debito pubblico ammontante, secondo Bankitalia, a 1.843.015 milioni di euro. Scriviamo bene questa cifra per esteso:
1.815.015.000.000 €
Immaginate cosa potreste fare con solo un'infinitesima frazione di quel denaro... immaginate cosa potremmo fare qui nel Ghetto, che è appena più grande di due campi di calcio affiancati. Ma queste sono cifre da Stati e non riguardano noi comuni mortali.
Ora... questo milione e ottocentomila milioni di debito non sono in realtà né tanti, né pochi. Se il nostro Prodotto Interno Lordo fosse il doppio di questa cifra, sarebbero pochi, se invece fosse la metà sarebbero terribilmente tanti. I nostri antenati lo spaevano benissimo: se andate in Via Luccoli, al civico 26 troverete un portale quattrocentesco su cui campeggia un monito che ben si adatta ai genovesi di una volta: SVMPTVS CENSVM NON SVPERET, ovvero “Le entrate non superino le uscite”.
Il motto è saggio, ma non del tutto veritiero. La finanza del XX secolo è un po' più articolata rispetto a quella del XV e ha finito col dare al debito, e soprattutto al debito pubblico, il valore di un volano per l'economia. La chiamavano economia keynesiana e, nel tempo, ha probabilmente salvato più vite della penicillina. Oggi, ad esempio, il Giappone ha un debito pubblico che è pari a due volte e un quarto il suo PIL, ma i soldi del debito sono stati spesi in investimenti infrastrutturali. Per la verità, l'effetto combinato della crisi internazionale e di una catastrofe come quella di Fukushima (che, a dire il vero, sono abbastanza legate tra loro) autorizzerebbe a previsioni alquanto fosche, ma il Giappone resterà comunque un paese affidabile, cui gli investitori, soprattutto se giapponesi, affideranno volentieri i loro risparmi.
Per noi, è diverso. Se escludiamo il caso giapponese (che a tutti gli effetti è un'anomalia su scala mondiale) e la città stato di Singapore (la cui finanza pubblica è molto “nipponica” nel modo di ragionare), i paesi in cui il debito pubblico è superiore al PIL sono pochissimi: ci sono l'Islanda e la Grecia, le cui vicissitudini sono ormai note, e c'è lo Zimbabwe, disgraziato paese che detiene il primato dell'iperinflazione (100.000 % su base annua secondo l'ultimo rilevamento disponibile del 2008) e dove una pagnotta arriva a costare 200.000 miliardi zimbabwani. E, dulcis in fundo, ci siamo anche noi.
Eh già, il nostro debito pubblico (sempre secondo Bankitalia) al 31 dicembre del 2010 corrispondeva al 119 % del PIL, un dato in continua e inesorabile crescita fin dal 2007. Quindi, c'era da preoccuparsi da almeno tre anni, quando il debito ha superato il PIL, e c'è ancor più da preoccuparsi adesso, perché sembra che nessuna delle contromisure adottate abbia funzionato. Ammesso che ve ne siano state: in Italia il debito pubblico è in parte servito a finanziare opere infrastrutturali sulla cui utilità o sulla cui gestione ci sarebbe molto da ridire, in parte (in piccola parte) per finanziare i servizi, ma soprattutto per coprire gli interessi dei titoli di stato emessi in precedenza. Insomma, non è che ci fosse molto da poter fare, ma noto per inciso che da anni si parla di tagliare il tagliabile e nessuno osa mettere in dubbio la cancellazione di quelle grandi opere che hanno suscitato più critiche che consensi.
Ricapitoliamo. Uno stato ha essenzialmente due modi per reperire i fondi necessari al proprio sostentamento: prelevarli dai propri cittadini sotto forma di tasse (e per questo ricambiarli attraverso i servizi) o chiederli in prestito sul libero mercato sotto forma di titoli di stato. Ora, mentre il rapporto tra il debito contratto dallo Stato e quello contratto dalle pubbliche amministrazioni è circa di 95 a 5, la composizione complessiva del debito pubblico vede una netta prevalenza dei titoli di stato (l'83%). Che cosa significa tutto ciò? Che nei prossimi anni, tutti gli sforzi economici del paese dovranno essere impiegati per coprire gli interessi sul debito, e rimarrà ben poco per il resto, enti pubblici compresi. Ciao ciao servizi! Quando si è indebitati fino al collo e non si guadagna abbastanza, si deve tirare a cinghia, aspettando finché i creditori non sono stati ripagati oppure si fa fallimento, altre strade non ce n'è, o quasi...
Si può sempre mporre un prelievo forzoso, un po' come fece Amato, ma questa non è soltanto una manovra dalle conseguenze politiche spesso infelici (la tentò la repubblica di Weimar nel 1919, con le conseguenze che tutti sappiamo) ma suona anche come una presa in giro nei paesi come l'Italia dove i titoli di stato sono detenuti da risparmiatori nazionali: in effetti si pagherà il loro credito con quegli stessi soldi che vengono prima prelevati. Questo nel migliore dei casi; nel peggiore si aziona un colossoale meccanismo di esproprio ai danni dei piccoli risparmiatori a favore degli investitori istituzionali (banche e gruppi finanziari in genere) con il risultato di disgregare definitivamente que che resta di una compagine sociale già abbastanza sfilacciata.
Oppure, come si è detto, si dichiara il fallimento dell'intera nazione, azzerandone il debito istantaneamente. E subito, piccoli risparmiatori di qua e di là dei confini ce l'hanno in un piede perché i loro risparmi in Btp diventano carta straccia, ma anche i gruppi bancari che, come si dice, ce l'hanno nella pancia, se la vedono subito brutta. Questo non farà proprio un bell'effetto sui mercati internazionali, soprattutto perché si è aspettato che la situazione degenerasse nonostante i problemi fossero già evidenti da almeno tre anni. Per l'Italia, l'insolvenza, il default come lo chiamano oggi, significherebbe una decina d'anni di ostracismo da parte dei mercati internazionali, e noi non siamo come l'Argentina che, bene o male (più male che bene) è in grado di autosostentarsi. Significherebbe la sparizione di servizi anche essenziali, il crollo ai minimi termini di economia e occupazione, l'allargamento vertiginoso del già preoccupante divario tra le fasce più ricche e quelle più povere della popolazione e la conseguente sparizione della classe media, che avrà pure tanti difetti, ma in fondo è quella che garantisce una certa viscosità soiclae nel sistema. Significherebbe anche uscire dall'euro e riadottare la lira, affidandosi a ripetute svalutazioni per ridare una certa competitività alle nostre esportazioni, ma pagando con gli interessi tutti le importazioni, dai generi alimentari alla tecnologia (per non parlare di tutte le voci legate all'energia... E se mai volessimo tornare a rivestire un certo "appeal" sui mercati ripagando in parte il debito accumulato, dovremo comunque farlo in euro. Insomma, l'uscita dall'euro (praticamente inevitabile in caso di default) invece di darci respiro ci procurerebbe nuovi guai.
Sperando che tutto questo non accada, nonostante gli sforzi compatti della nostra classe politica per farci apparire una manica di cialtroni inaffidabili agli occhi del mondo, è del tutto probabile che il paese stia andando incontro ad un periodo più o meno lungo di vacche magrissime.
Perciò, a conti fatti, è inutile credere alla fola del più tasse più servizi: se tutto va per il meglio (ma proprio per il meglio) avremo solo più tasse e basta. Parafrasando Kennedy, t'attacchi se speri che lo stato farà più qualcosa per te, pensa piuttosto a cosa puoi fare tu con i brandelli cenciosi che lo stato butterà via in un'affanosa rincorsa fatta di tagli sempre più indiscriminati.
E qui, finalmente, entra in scena il Ghetto!
Come diceva Conan il Barbaro, "Tutto ciò che non uccide fortifica" (forse era Nietzsche, ma Conan lo scrivo più facilmente).
Al Comune di Genova hanno capito che aria tira e così si sacrificherà l'orto botanico. D'altronde, a cosa serve un orto botanico? Le scuole non hanno più soldi per le vacanze di classe (anzi, forse non avranno nemmeno più vacanze) e i biologi possono studiarsi le piante su Wikipedia! La voce si è diffusa, e qualche pianta centenaria (che magari avrà avuto persino un valore venale) si è già volatilizzata. D'altronde, cosa mai saranno poche centinaia, o magari migliaia di euro, di fronte a quei milleottocento milioni che volteggiano sopra di noi. Allora ci siamo detti: per lasciare lì a seccare quelle piante, perché non ce ne facciamo dare qualcuna? La Piazza Senza Nome è anche senza alberi e gli alberi, in fondo, sono proprio belli! Danno il senso ad una piazza,,, che rimarrà ccomunque senza nome, ma magari avrà un po' d'ombra e, forse, ma non vorrei sperare troppo, anche una panchina.
Ci pensate che bello? Una panchina... Dove fermarsi a riposare, magari smangiucchiare un panino (soldi alle imprese), fumare una sigaretta (soldi allo stato)... e cosa ne dite di una dichiarazione d'amore (questa finalmente gratis)? Alla faccia del debito pubblico e del suo milione e ottocentomila milioni necessari a pagare assurdità come il ponte sullo stretto (anche se poi non lo faranno) o il collegamento veloce con Lione (così, anche se le cose andranno male, avremo almeno il camembert fresco tutte le mattine).
Accantonato per un attimo il sogno di una panchina, abbiamo chiamato un amico dell'Aster e gli abbiamo chiesto se, tra le piante dell'orto botanico destinate all'abbandono, ce ne fosse qualcheduna che potesse andarci bene. L'amico ha subito messo in chiaro che dovevamo scordarci che qualcuno venisse mai a fare manutenzione. Ci sono già problemi di personale adesso e, contemporaneamente, dalla chiatta dell'Urban Lab escono voci di una città sempre più “smart” e sempre più verde: questo significa che per provare almeno a fare quello che si sta promettendo ci sarà bisogno di fare miracoli, senza bisogno che la gente del Ghetto si metta in testa di volere gli alberi in una piazza che non c'è.
In effetti, se ci fate caso, Genova è già adesso piena di alberi e un tempo ce n'era anche di più. Il loro stato di manutenzione è quello che è, e considerando che a fronte dei pensionamenti che ci sono stati nel settore non ci sono state in pratica assunzioni, ha del miracoloso. E pensate a quanti parchi ci sono a Genova. Insomma, se vogliamo gli alberi ci dobbiamo pensare noi.
Come andrà a finire? Non lo so. Ma d'altra parte, per fare un albero ci vuole un seme, per fare un seme ci vuole un frutto e per fare un frutto ci vuole un fiore. Per fare tutto ci vuole un fiore, E qualche fiore, nella Piazza Senza Nome, ci starebbe proprio bene.