domenica 4 settembre 2011

Per fare un tavolo, ci vuole il legno

Caspar David Friedrich (1774 - 1840)
L'albero solitario (1822)
Berlino, Gemäldegalerie

Per fare il tavolo, ci vuole il legno...
Per fare il legno, ci vuole l'albero...
La cantava Sergio Endrigo quando ero piccolo, e io ancora mi commuovo se mi capita di ascoltarla. Eh sì, sono proprio un sentimentale dai gusti particolarmente infantili. Questo post vuole un po' seguire la stessa traccia della canzone, partirà dai tavoli della burocrazia finanziaria per arrivare ad alberi veri e propri che speriamo di piantare da queste parti. Il tragitto sarà forse un po' lungo, ma mi auguro davvero che riuscirà ad essere di un qualche interesse per chi lo leggerà.
Banchi di scuola e alberi vengono sagacemente accostati in uno spot irresistibile che termina con la memorabile affermazione secondo cui "Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti con i servizi". Forse ci sarebbe qualcosa da ridire, ma, in linea teorica il ragionamento è inappuntabile. Il problema è che nei trenta secondi di cartone animato si cerca di far passare l'idea di un'implicazione logica tra le due proposizioni, anzi, lo si afferma esplicitamente: "Se più persone pagano le tasse i servizi aumentano, ma solo se tutti le pagano questi servizi diventano davvero efficienti". Tutto ciò, purtroppo non è vero, cioè... magari potrebbe anche succedere, ma è perfettamente possibile che accada il contrario. L'ipotesi più probabile per il nostro paese e che aumenteranno le tasse (e non tutti vorranno o potranno pagarle) mentre i servizi si ridurranno drasticamente (e non tutti ne saranno beneficiati). Per quel che ne sappiamo, proprio per questo potrebbero diventare più efficienti. D'altra parte, Kennedy diceva che i cinesi scrivono la parola crisi accoppiando i caratteri che significano "pericolo" e "opportunità", e  Kennedy pagava i migliori ghost-writer dei suoi tempi. Chissà che questo probabile quanto imminente crollo nella quantità di servizi non possa rivelarsi un'oppotunità per la nostra Piazza Senza Nome. Prendiamolo come un buon viatico di fronte a un futuro quanto mai incerto.
Ma andiamo per ordine.
Lo stato italiano (cioé noi) al 31 dicembre 2010 aveva un abominevole debito pubblico ammontante, secondo Bankitalia, a 1.843.015 milioni di euro. Scriviamo bene questa cifra per esteso:
1.815.015.000.000 €
Immaginate cosa potreste fare con solo un'infinitesima frazione di quel denaro... immaginate cosa potremmo fare qui nel Ghetto, che è appena più grande di due campi di calcio affiancati. Ma queste sono cifre da Stati e non riguardano noi comuni mortali.
Ora... questo milione e ottocentomila milioni di debito non sono in realtà né tanti, né pochi. Se il nostro Prodotto Interno Lordo fosse il doppio di questa cifra, sarebbero pochi, se invece fosse la metà sarebbero terribilmente tanti. I nostri antenati lo spaevano benissimo: se andate in Via Luccoli, al civico 26 troverete un portale quattrocentesco su cui campeggia un monito che ben si adatta ai genovesi di una volta: SVMPTVS CENSVM NON SVPERET, ovvero “Le entrate non superino le uscite”.
Il motto è saggio, ma non del tutto veritiero. La finanza del XX secolo è un po' più articolata rispetto a quella del XV e ha finito col dare al debito, e soprattutto al debito pubblico, il valore di un volano per l'economia. La chiamavano economia keynesiana e, nel tempo, ha probabilmente salvato più vite della penicillina. Oggi, ad esempio, il Giappone ha un debito pubblico che è pari a due volte e un quarto il suo PIL, ma i soldi del debito sono stati spesi in investimenti infrastrutturali. Per la verità, l'effetto combinato della crisi internazionale e di una catastrofe come quella di Fukushima (che, a dire il vero, sono abbastanza legate tra loro) autorizzerebbe a previsioni alquanto fosche, ma il Giappone resterà comunque un paese affidabile, cui gli investitori, soprattutto se giapponesi, affideranno volentieri i loro risparmi.
Per noi, è diverso. Se escludiamo il caso giapponese (che a tutti gli effetti è un'anomalia su scala mondiale) e la città stato di Singapore (la cui finanza pubblica è molto “nipponica” nel modo di ragionare), i paesi in cui il debito pubblico è superiore al PIL sono pochissimi: ci sono l'Islanda e la Grecia, le cui vicissitudini sono ormai note, e c'è lo Zimbabwe, disgraziato paese che detiene il primato dell'iperinflazione (100.000 % su base annua secondo l'ultimo rilevamento disponibile del 2008) e dove una pagnotta arriva a costare 200.000 miliardi zimbabwani. E, dulcis in fundo, ci siamo anche noi.
Eh già, il nostro debito pubblico (sempre secondo Bankitalia) al 31 dicembre del 2010 corrispondeva al 119 % del PIL, un dato in continua e inesorabile crescita fin dal 2007. Quindi, c'era da preoccuparsi da almeno tre anni, quando il debito ha superato il PIL, e c'è ancor più da preoccuparsi adesso, perché sembra che nessuna delle contromisure adottate abbia funzionato. Ammesso che ve ne siano state: in Italia il debito pubblico è in parte servito a finanziare opere infrastrutturali sulla cui utilità o sulla cui gestione ci sarebbe molto da ridire, in parte (in piccola parte) per finanziare i servizi, ma soprattutto per coprire gli interessi dei titoli di stato emessi in precedenza. Insomma, non è che ci fosse molto da poter fare, ma noto per inciso che da anni si parla di tagliare il tagliabile e nessuno osa mettere in dubbio la cancellazione di quelle grandi opere che hanno suscitato più critiche che consensi.
Ricapitoliamo. Uno stato ha essenzialmente due modi per reperire i fondi necessari al proprio sostentamento: prelevarli dai propri cittadini sotto forma di tasse (e per questo ricambiarli attraverso i servizi) o chiederli in prestito sul libero mercato sotto forma di titoli di stato. Ora, mentre il rapporto tra il debito contratto dallo Stato e quello contratto dalle pubbliche amministrazioni è circa di 95 a 5, la composizione complessiva del debito pubblico vede una netta prevalenza dei titoli di stato (l'83%). Che cosa significa tutto ciò? Che nei prossimi anni, tutti gli sforzi economici del paese dovranno essere impiegati per coprire gli interessi sul debito, e rimarrà ben poco per il resto, enti pubblici compresi. Ciao ciao servizi! Quando si è indebitati fino al collo e non si guadagna abbastanza, si deve tirare a cinghia, aspettando finché i creditori non sono stati ripagati oppure si fa fallimento, altre strade non ce n'è, o quasi...
Si può sempre mporre un prelievo forzoso, un po' come fece Amato, ma questa non è soltanto una manovra dalle conseguenze politiche spesso infelici (la tentò la repubblica di Weimar nel 1919, con le conseguenze che tutti sappiamo) ma suona anche come una presa in giro nei paesi come l'Italia dove i titoli di stato sono detenuti da risparmiatori nazionali: in effetti si pagherà il loro credito con quegli stessi soldi che vengono prima prelevati. Questo nel migliore dei casi; nel peggiore si aziona un colossoale meccanismo di esproprio ai danni dei piccoli risparmiatori a favore degli investitori istituzionali (banche e gruppi finanziari in genere) con il risultato di disgregare definitivamente que che resta di una compagine sociale già abbastanza sfilacciata.
Oppure, come si è detto, si dichiara il fallimento dell'intera nazione, azzerandone il debito istantaneamente. E subito, piccoli risparmiatori di qua e di là dei confini ce l'hanno in un piede perché i loro risparmi in Btp diventano carta straccia, ma anche i gruppi bancari che, come si dice, ce l'hanno nella pancia, se la vedono subito brutta. Questo non farà proprio un bell'effetto sui mercati internazionali, soprattutto perché si è aspettato che la situazione degenerasse nonostante i problemi fossero già evidenti da almeno tre anni. Per l'Italia, l'insolvenza, il default come lo chiamano oggi, significherebbe una decina d'anni di ostracismo da parte dei mercati internazionali, e noi non siamo come l'Argentina che, bene o male (più male che bene) è in grado di autosostentarsi. Significherebbe la sparizione di servizi anche essenziali, il crollo ai minimi termini di economia e occupazione, l'allargamento vertiginoso del già preoccupante divario tra le fasce più ricche e quelle più povere della popolazione e la conseguente sparizione della classe media, che avrà pure tanti difetti, ma in fondo è quella che garantisce una certa viscosità soiclae nel sistema. Significherebbe anche uscire dall'euro e riadottare la lira, affidandosi a ripetute svalutazioni per ridare una certa competitività alle nostre esportazioni, ma pagando con gli interessi tutti le importazioni, dai generi alimentari alla tecnologia (per non parlare di tutte le voci legate all'energia... E se mai volessimo tornare a rivestire un certo "appeal" sui mercati ripagando in parte il debito accumulato, dovremo comunque farlo in euro. Insomma, l'uscita dall'euro (praticamente inevitabile in caso di default) invece di darci respiro ci procurerebbe nuovi guai.
Sperando che tutto questo non accada, nonostante gli sforzi compatti della nostra classe politica per farci apparire una manica di cialtroni inaffidabili agli occhi del mondo, è del tutto probabile che il paese stia andando incontro ad un periodo più o meno lungo di vacche magrissime.
Perciò, a conti fatti, è inutile credere alla fola del più tasse più servizi: se tutto va per il meglio (ma proprio per il meglio) avremo solo più tasse e basta. Parafrasando Kennedy, t'attacchi se speri che lo stato farà più qualcosa per te, pensa piuttosto a cosa puoi fare tu con i brandelli cenciosi che lo stato butterà via in un'affanosa rincorsa fatta di tagli sempre più indiscriminati.
E qui, finalmente, entra in scena il Ghetto!
Come diceva Conan il Barbaro, "Tutto ciò che non uccide fortifica" (forse era Nietzsche, ma Conan lo scrivo più facilmente).
Al Comune di Genova hanno capito che aria tira e così si sacrificherà l'orto botanico. D'altronde, a cosa serve un orto botanico? Le scuole non hanno più soldi per le vacanze di classe (anzi, forse non avranno nemmeno più vacanze) e i biologi possono studiarsi le piante su Wikipedia! La voce si è diffusa, e qualche pianta centenaria (che magari avrà avuto persino un valore venale) si è già volatilizzata. D'altronde, cosa mai saranno poche centinaia, o magari migliaia di euro, di fronte a quei milleottocento milioni che volteggiano sopra di noi. Allora ci siamo detti: per lasciare lì a seccare quelle piante, perché non ce ne facciamo dare qualcuna? La Piazza Senza Nome è anche senza alberi e gli alberi, in fondo, sono proprio belli! Danno il senso ad una piazza,,, che rimarrà ccomunque senza nome, ma magari avrà un po' d'ombra e, forse, ma non vorrei sperare troppo, anche una panchina.
Ci pensate che bello? Una panchina... Dove fermarsi a riposare, magari smangiucchiare un panino (soldi alle imprese), fumare una sigaretta (soldi allo stato)... e cosa ne dite di una dichiarazione d'amore (questa finalmente gratis)? Alla faccia del debito pubblico e del suo milione e ottocentomila milioni necessari a pagare assurdità come il ponte sullo stretto (anche se poi non lo faranno) o il collegamento veloce con Lione (così, anche se le cose andranno male, avremo almeno il camembert fresco tutte le mattine).
Accantonato per un attimo il sogno di una panchina, abbiamo chiamato un amico dell'Aster e gli abbiamo chiesto se, tra le piante dell'orto botanico destinate all'abbandono, ce ne fosse qualcheduna che potesse andarci bene. L'amico ha subito messo in chiaro che dovevamo scordarci che qualcuno venisse mai a fare manutenzione. Ci sono già problemi di personale adesso e, contemporaneamente, dalla chiatta dell'Urban Lab escono voci di una città sempre più “smart” e sempre più verde: questo significa che per provare almeno a fare quello che si sta promettendo ci sarà bisogno di fare miracoli, senza bisogno che la gente del Ghetto si metta in testa di volere gli alberi in una piazza che non c'è.
In effetti, se ci fate caso, Genova è già adesso piena di alberi e un tempo ce n'era anche di più. Il loro stato di manutenzione è quello che è, e considerando che a fronte dei pensionamenti che ci sono stati nel settore non ci sono state in pratica assunzioni, ha del miracoloso. E pensate a quanti parchi ci sono a Genova. Insomma, se vogliamo gli alberi ci dobbiamo pensare noi.
Come andrà a finire? Non lo so. Ma d'altra parte, per fare un albero ci vuole un seme, per fare un seme ci vuole un frutto e per fare un frutto ci vuole un fiore. Per fare tutto ci vuole un fiore, E qualche fiore, nella Piazza Senza Nome, ci starebbe proprio bene.



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