giovedì 22 settembre 2011

Il pericolo non è il mio mestiere (favola con morale)


Gustave Doré (1832-1883)
Wentworth Street
incisione tratta da London, A Pilgrimage (1872)

Non amo il pericolo. Non amo le cose pericolose e meno che mai i posti pericolosi. Quando sciavo, evitavo le piste nere e in montagna, se in un sentiero incontro l'indicazione “per esperti”, cambio strada. In Siria, la mia guida mi aveva invitato a fare una capatina nell'Iraq settentrionale dove, a sentir lui, era tutto tranquillo: naturalmente ho detto di no.
Ci ho pensato qualche giorno fa quando, sotto casa in Vico della Croce Bianca, ho incocciato una coppia, madre e figlia, impegnata in un evidente sopralluogo “immobiliare”. Fingendomi uno sfaccendato - cosa che a dire il vero mi riesce molto naturale – mi sono appoggiato al muro più vicino per ascoltare la loro conversazione.
“Guarda che degrado!”
“Che puzza!”
E via così.
In effetti, era la fine di luglio e il vicolo, come quasi tutto il centro storico, era piuttosto maleodorante, ma il tono con cui le due stavano confabulando era francamente irritante, soprattutto nel modo pappagallesco con cui usavano il termine “degrado”. Penso fossero convinte che la zona non era degradata, ma “degradante” e che tale effetto si estendesse naturalmente anche agli abitanti. Avevo quasi voglia di interromperle dicendo: “Signore, nessuno vi costringe a comprar casa nel centro storico se non ci siete tagliate. Esistono un sacco di altri quartieri dove potrete trovare quello che fa al caso vostro”.
Invece fu la madre a rivolgermi la parola, dicendomi in tono brusco: «Ma... questo posto... ma è sicuro?»
Ora...come dicevo prima, io non amo i posti pericolosi. A qualcuno piacciono, ma a me no. Tuttavia mi è capitato di vederne qualcuno, generalmente dal finestrino di un taxi o del metrò: qualche zona del Bronx, il South Side di Chicago, alcune zone della banlieue di Parigi o del centro di Barcellona (che oggi, tra l'altro, sono diventate quartieri per fighetti). Una volta ho addirittura attraversato Vanazdor (in Armenia) poco dopo un regolamento di conti della mafia locale: una lunga distesa di casermoni socialisti mentre per la strada brulicavano gli agenti della polizia armena con i loro buffi cappelloni a disco in stile sovietico e meno buffi kalashnikov sotto braccio.
Ebbene: mai e poi mai mi sarebbe passato per l'anticamera del cervello di rivolgere la parola a chicchessia, quindi men che meno di chiedergli se quello era un posto “sicuro”. Accidenti: quando attraversi un posto pericoloso, cerchi di appiattirti sul muro o di sparire sul sedile della macchina dove ti trovi, guardi solo in avanti e cerchi di lasciarti il quartiere alle spalle il più presto possibile, senza voltarti indietro.
A questo punto, che gli potevo rispondere? Che il solo fatto che si fosse sentita di farmi quella domanda era già di per sé la risposta? O non sarebbe stato meglio un bel racconto truculento con rapine e spacciatori? Alla fine – è la mia natura – ho impapocchiato un discorso obiettivo sui pregi e i difetti dell'area e su come la dipendenza dei valori immobiliari della zona dipendano in modo pesante dalle scelte dell'Amministrazione e che pertanto potrebbero avere una forte volatilità. Ero abbastanza sicuro che non ci stessero capendo un acca e che, forse, era meglio dar fondo alla stura su droga e delinquenti... ma ormai avevo cominciato.
Alla fine se ne sono andate, e io mi sono ritrovato a riflettere su come la “pericolosità percepita” nel Ghetto (e nell'intero centro storico) sia abnormemente accresciuta dalle obiettive condizioni di degrado. Ma che cos'è il degrado?
Mi ricordo che a Washington (città con una popolazione pari a quella di Genova e con un tasso di omicidi circa otto volte superiore) le zone di periferia mettevano tristezza a causa della crisi immobiliare (ghirlande natalizie abbandonate, giardini che si intuiva fossero stati amorevolmente tenuti trasformati in giungla urbana) ma che proprio le tracce di questa cura finivano per lasciare rassicurati (e in effetti, a Washington non mi è capitato nulla). A Montréal la mia amica poliziotta mi ha portato a fare un giro dei vari quartieri cittadini e, quando mi ha portato in quello più “pericoloso” (quello dove si facevano arresti tutti i giorni) sono rimasto colpito da quanto quella distesa di villette dai prati ben tenuti somigliasse ad Albaro. Quando feci notare che il quartiere era molto pulito, lei mi guardò sbalordita dicendomi che, solo perché uno è un delinquente, non per questo non dovrebbe tenere al posto dove abita.
Ecco... quello che rovina il centro storico è la totale mancanza di manutenzione. Il fatto che sia ancora un centro “vivo” e non soltanto turistico comporta certo un certo grado di “vissuto” che è estraneo a quei centri francesi o tedeschi ripuliti fino all'osso, con le loro brave piazzette su cui si aprono gelaterie, librerie esoteriche e negozi di balestre. Nessuno di noi vorrebbe vivere in un posto del genere, non che abbia qualcosa contro i libri fantasiosi o le balestre giocattolo (e meno che mai contro i gelati), ma un centro storico conciato in quel modo finirebbe per perdere la sua funzione fondamentale, che non è quella di affascinare i turisti ma di funzionare come una “camera di decompressione” in cui possono trovare rifugio tutti coloro che, per un motivo o per altro, rischiano di trovarsi spaesati in una città divisa a compartimenti stagni come Genova. Il centro storico è, in pratica, l'unica zona della città (e sono relativamente poche in Italia) dove la diversità è tutelata. Solo che è tenuto veramente male.


LA FAVOLA INSEGNA CHE...
gli italiani si credono che speculare sugli immobili sia una cosa facile. Figuriamoci: è un incubo gestirli, non parliamo di specularci sopra. È anche vero che, con un mercato così pesantemente influenzato dai chiari di luna del settore pubblico (dalla pianificazione alla tassazione), la gente si metta in testa cose strane. Non esiste la casa perfetta, centrale, decorosa e che magari costi anche poco: ogni immobile ha pregi e difetti che andrebbero attentamente valutati. Naturalmente, in un paese dove l'economia finanziaria è una steppa selvaggia attraversata da orde di saccheggiatori, tutti buttano negli immobili i loro risparmi (magari senza pensare che anche quella non è una situazione troppo diversa).
Anche se a prima vista non sembra, il problema della proprietà è strettamente connesso a quello del degrado: con il progressivo restringersi dei margini di guadagno, la messa a reddito di un immobile tende a diventare sempre più speculativa e sempre meno conservativa: in soldoni, si tende a massimizzare il profitto (magari attraverso il subaffitto ad extracomunitari) e a minimizzare gli interventi di manutenzione. È il tipico fenomeno della “proprietà assente”, già ampiamente descritto
in innumerevoli saggi sulle grandi città americane, e il risultato di questo processo è inevitabilmente il degrado: i residenti (proprietari o inquilini) finiscono per perdere fiducia sulle possibilità di rivalutazione dell'area in cui abitano e, non diversamente dai “proprietari assenti”, tenderanno a limitare al minimo indispensabile gli interventi di manutenzione e a rimandare quelli di risanamento, fino ad arrivare a vendere, con tutta probabilità proprio ai “proprietari assenti”, che vedranno così aumentare la loro quota di immobili “problematici”.
Alla fine perde interesse anche l'Amministrazione Pubblica, soprattutto se l'area in oggetto è abitata da stranieri (ovvero gente che non la vota), e dato che la progressiva perdita di valore dell'area finisce per creare un differenziale di valore tale da renderla appettibile per la speculazione (si parla in questo caso di soggetti di una certa importanza, non certo dei piccoli risparmiatori) si verranno a creare gruppi di pressione volti da una parte a dissuadere l'Amministrazione a fare qualsiasi intervento (“soldi sprecati”) e dall'altra a offrirsi “spontaneamente” di intervenire sull'area.
“Che male c'è?” ci si potrebbe domandare. Si tratta di un processo economico teso al rinnovamento e non di uno sfollamento imposto. Qualche problema però c'è.
Siccome è più facile fare il macellaio (o il serial killer) che il neurochirurgo, si sente sempre più spesso parlare di “sventramenti” piuttosto che di “interventi puntuali”; in parole povere, gli imprenditori tendono a buttare giù tutto in nome del nuovo, dato che demolire indiscriminatamente costa meno che recuperare. Ma quello che tirano su non sempre (anzi quasi mai) è di una qualità lontanamente paragonabile a quella che un tempo aveva ciò che è stato demolito. Detto in altra maniera, distruggiamo cose che non siamo più n grado di ricostruire in nome di presunte migliorie tutte da dimostrare. Faccio un parallelo urbanistico per rendere più chiaro il concetto: con la Fiumara il tessuto commerciale di Sampierdarena è stato praticamente distrutto e sono stati eliminati posti di lavoro consolidati e “sicuri” per avere in cambio un centinaio di posti come commessa o come cassiere (a tempo determinato). Allo stesso modo gli edifici moderni, specie se di edilizia pubblica o di natura speculativa, hanno spesso muri troppo sottili (e quindi richiedono molta più energia per essere riscaldati), serramenti troppo fragili o disposizioni cervellotiche. Gli impianti sono probabilmente più facili da montare o da gestire (spesso neanche quello), ma nel complesso le voci negative surclassano quelle positive.
E allora perché si fa? Perché è un affare. Anche se solo per pochi. Gli immobili hanno comunque un valore, dato dalla loro posizione. Nel centro storico si trovano – scusate la tautologia – al centro. Che in tutta Europa è l'area più ricercata (in America non è così, ma questo è un altro discorso) perché è quella da cui più facilmente si può accedere alle altre. Se si demolisce un edificio del centro (magari facendone ricadere gli oneri sulle comunità) e lo si ricostruisce... un po' alla buona, l'imprenditore si intasca per intero il plusvalore risultante (scusatemi la desueta terminologia marxiana, ma ho raramente trovato l'analisi del filosofo di Treviri così calzante come in queste operazioni).
Morale: ogni cartaccia buttata per terra è una cartuccia nella bandoliera degli speculatori. Non sono brutta gente, anzi, in una condizione politica normale e con un regime fiscale sensato sono figure assolutamente necessarie per il buon funzionamento di una società. Ma nella situazione malata che si è venuta a creare sembra che ne siano rimasti solo due tipi: i pescecani e le due donne di cui si parlava, ignare (ma forse nemmeno troppo) che parlare di degrado è il primo passo per fare un buon affare.

2 commenti:

  1. Ma Ale son troppo lunghi i tuoi scritti! devi sforzarti di restare nelle tre righe sennò non ti legge nessuno! Miki.

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  2. Farò quel che potrò... non so se ho il tempo di farli più brevi!

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