lunedì 26 settembre 2011

Titolo rettificato ai sensi dell'art.3, comma 29 del ddl "intercettazioni"



Norman Rockwell
Libertà di parola (1943)
Stockbridge (MA), The Norman Rockwell Museum

Pensato inizialmente come un omaggio allo stile “barzellettiero” di argomentazione politica, così in voga in questi giorni, il post avrebbe dovuto intitolarsi:

TITOLO RETTIFICATO AI SENSI DELL'ART 3, COMMA 29 DEL DDL “INTERCETTAZIONI”
SU RICHIESTA DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
SILVIO FACCE RIDE!

anche se dopo, la tentazione di utilizzare comunque qualcosa di spocchiosamente colto mi aveva fatto optare per:

TITOLO RETTIFICATO AI SENSI DELL'ART 3, COMMA 29 DEL DDL “INTERCETTAZIONI”
SU RICHIESTA DELLA SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI
CON L 'AGGRAVANTE DI SOSPETTA VIOLAZIONE DI COPYRIGHT
POVERA ITALIA, SCHIACCIATA DAGLI ABUSI DEL POTERE

ma alla fine anche quello non mi convinceva un gran che. Così avevo optato per:


TITOLO RETTIFICATO AI SENSI DELL'ART 3, COMMA 29 DEL DDL “INTERCETTAZIONI”
SU RUCHIESTA DELLA RAMAZZOTTI - GRUPPO PERNOD RICARD 
BARI DA BERE, MILANO DA GONFIARE

in onore dell'avanzamento di rating ottenuto dalla Puglia di Nichi Vendola rispetto a quello della Milano post-Moratti, ma ho dovuto rinunciarci quando ho saputo che anche il nostro Comune e la nostra Regione hanno seguito le orme meneghine.
Pittaluga! Pittaluga! Rendimi le mie palanche!
Testo rettificato ai sensi dell'art. 3, comma 29 del ddl “intercettazioni” su richiesta dell'Assessorato al Bilancio della Regione Liguria e modificato in:
Tremonti! Tremonti! Smettila coi tagli!
Testo rettificato ai sensi dell'art. 3, comma 29 del ddl “intercettazioni” su richiesta del Ministero dell'Economia e delle Finanze e modificato in:
Ah, malefici effetti del complotto plutocratico giudaico-massone che vuole la rovina dell'Italia!
Testo che, sinceramente, rettificherei io ai sensi della norma contenuta nella Costituzione Italiana che vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista (per la cronaca si tratta della XII disposizione transitoria e finale), ma oggi come oggi con la Costituzione ci si puliscono il culo  Testo rettificato ai sensi dell'art. 3, comma 29 del ddl “intercettazioni” su richiesta della Corte Costituzionale e modificato in: gli occhiali.
Così il post non ha titolo, ed ha un semplice valore di metafora.
La barzelletta è presto detta: un vecchietto cieco arriva in spiaggia; tira fuori dalla borsa una bambola di gomma piuttosto esplicita e comincia a gonfiarla. Un ragazzo gli si avvicina e, con circospezione, lo prega di smettere, perché sta dando scandalo. Il vecchio cieco dapprima non capisce, poi grida, terrorizzato: “Noooo! Mi vuol dire che per tutto l'inverno ho scopato col canotto?”
Non importa se fa ridere o no. È perfettamente in linea con il dibattito politico italiano di questi ultimi anni, e mi serve per fissare l'attenzione su alcune situazioni. In primo luogo, il meccanismo comico scatta a causa della cecità del malcapitato protagonista. Ora, pensate un attimo la stessa barzelletta, in cui il vecchietto però non è cieco. In quel caso non ci sarebbe niente da ridere: il poveretto sarebbe invece un mentecatto minus habens. E pensiamo ancora se fosse un Ministro della Repubblica (uno qualsiasi, non specificato, anzi fittizio e di uno stato non esistente). Povero stato non esistente! Ma le cose potrebbero andare ancora peggio se invece che su una spiaggia, la barzelletta si svolgesse in un consesso parlamentare.
Mi si potrebbe obiettare che la situazione è talmente assurda da non essere concepibile neppure come battuta. Beh... in primo luogo la cronaca italiana degli ultimi anni è piena di episodi non troppo diversi (che in linea di principio non sarebbero rettificabili perché acclarati, ma il ddl “intercettazioni” NON sembra contempli l'interessante quanto desueta distinzione tra fatti veri e falsi, pertanto ve li lascio soltanto ricordare). Inoltre, basta pochissimo per far sembrare la situazione descritta terribilmente plausibile: se nel nostro immaginario paese le parole “canotto” e “bambola gonfiabile” fossero i soprannomi di determinati pacchetti legislativi o economici (e guardate che “porcellum” esiste sul serio) la barzelletta finirebbe per essere identica a dibattiti politici di stringente attualità. Oggi tutti, immaginari o meno, si accusano reciprocamente di non aver saputo interpretare i segnali socio-economici (dei mercati, delle nazioni mediorientali, persino delle statistiche geosismiche), di aver predicato politiche liberiste e aver attuato norme stataliste (o magari viceversa) o ancora di aver cavalcato il corporativismo dicendo di combatterlo. Per dirla con una metafora discutibile ma colorita, sembra che tutti accusino il prossimo di aver scopato col canotto invece che con la bambola.
Beh...se fossero stati ciechi, sarebbero tutte barzellette, ma nessuno era cieco. Personalmente mi domando come sia stato possibile che dati importanti e consultabili da un qualsiasi internauta siano stati sistematicamente ignorati, quando era evidente a direzione che stavano indicando. Io e tutti quelli che conosco vedevamo benissimo il radicarsi dei corporativismi e delle conseguenti rendite da posizione o da monopolio nelle strutture sociali del paese, sapevamo che il loro apporto al beneamato PIL era soltanto un comodo espediente per rispettare le norme UE ma non aveva niente a che fare con l'economia reale. E quando i giornali hanno improvvisamente scoperto il disavanzo (un po' come se avessero improvvisamente detto a tutti gli italiani che erano anni che scopavano con il canotto), ci siamo chiesti come fosse possibile che nessuno se ne fosse accorto prima. Cecità? Malafede?
Penso soltanto a cosa risponderebbe il nostro presidente del Consiglio, se la Task Force di economisti (che pare sia stata messa su in fretta e furia subito dopo aver detto che andava tutto bene) andasse da lui dicendogli che da tre anni scopava con un canotto. Lui risponderebbe “Eh no... devo rettificare: la consigliera Minetti è solo un po' rifatta”.

Ben Shahn (1898 - 1969)
La passione di Sacco e Vanzetti (1931 - 32)
New York, Whitney Museum of American Art

domenica 25 settembre 2011

Pillole del post precedente



Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Sentinella all'erta! (1860)
Mannheim, Städliche Kunsthalle

 Sulla sicurezza
Genova è la città più americana d'Italia, soprattutto perché per anni abbiamo avuto più contatti con New York che con Milano. D'altra parte, quando Renzo Piano aveva invitato una di New York, uno di Barcellona e uno di Londra per discutere del PUC  molti (me compreso, lo ammetto) avevano pensato che si fosse bevuto il cervello in un delirio di onnipotenza. E invece non aveva tutti i torti... non a caso lui è Piano e io un personaggio di fantasia...
Senza andare nello specifico, è interessante notare come certe situazioni urbane delle grandi città americane si ritrovino da noi, che tanto grandi non siamo. A questo proposito, vorrei ricordare Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane (1961) di Jane Jacobs, grandissima studiosa dei fenomeni urbani (un gigante della sua generazione), soprattutto nella parte in cui spiega la fondamentale importanza, in termini di sicurezza sociale, che ha l'appropriarsi della “strada” da parte dei residenti. Molti studiosi nutrono infatti forti dubbi sul reale impatto delle politiche di “tolleranza zero” attuate da Giuliani (il più interessante e originale mi sembra sempre Freakonomics (2005) di Steven Levitt).
In quest'ottica, trovo che iniziative come quella della “giornata di pulizia” siano terribilmente importanti anche al di là dei risultati pratici, perché rappresentano una quanto mai significativa riappropriazione dei vicoli da parte dei residenti. D'altra parte, la rissa alla Commenda avvenuta proprio il giorno dopo la “festa multietnica” di Pré ha ottenuto un certo risalto solo perché la manifestazione del giorno prima ha avuto successo, e non ne vanifica affatto il significato ma anzi, spinge a pensare che quella sia la strada buona. 


Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Tornando a casa di notte (1860 c.)
Winterhtur, Reinhard Sammlung

Sul Centro Storico
In tutte le città esistono zone adibite a “camere di decompressione” delle emergenze sociali, siano esse l'immigrazione, la droga o la povertà. E generalmente le si concentra tutte assieme in un'area più o meno disagiata, che così alla fine esplode. Lo hanno fatto alla periferia di Parigi in quartieri nuovissimi ed efficientissimi (quest'ultimo aggettivo NON è ironico) che puntualmente insorgono per la gioia del ministro degli interni che può così invocare misure rigorose. A Genova questa “camera di decompressione” è il Centro Storico che, essendo vecchia di secoli, regge infinitamente meglio a questo genere di problemi. Certamente non somiglia al centro storico di Basilea o di Utrecht, ma è senz'altro un posto assai più vivibile di quel che si potrebbe pensare. Le situazioni umane e sociali che vi si incontrano sono così “stratificate” da rendere necessaria una certa attenzione negli interventi, se non si vuole che rimangano lettera morta. Ad esempio, la condizione di sovraffollamento di molti alloggi è spesso causa di pericolo concreto (penso alle caterve di bombole di gas che vi si accumulano) oltre che di disagio e di degrado, essa è probabilmente a monte di quel malessere sociale che sfocia, a volte, in manifestazioni violente. La risposta non dovrebbe consistere in una risposta esclusivamente “punitiva” (arresto degli inquilini e multa per i proprietari) ma considerare anche elementi di incentivo, fiscale o contrattuale, per i comportamenti effettivamente “virtuosi”. Usare solo il bastone e mai la carota spinge solo la gente a ingegnarsi su come eludere la bastonata.

Carl Spitzweg (1808 - 1885)
La perquisizione alla dogana (1880 c.)
Monaco, Lenbachhaus

L'unica cosa di cui aver paura...



Norman Rockwell
Libertà dalla paura (1943)
Stockbridge (MA), The Norman Rockwell Museum


Con il Comitato di Quartiere abbiamo già fatto due “giornate di pulizia”... ce ne sarà una terza, e probabilmente una quarta e una quinta e così via.
Non è che combiniamo molto: per un'ora o due si va in giro per i vicoli armati di ramazze e guantoni e si leva un po' di sporcizia... niente di professionale: anzi, dopo due esperienze del genere mi rivolgo a quelli dell'AMIU dicendo “Signor Netturbino”. Perché lo facciamo, allora?
Perché il gesto simbolico di girare insieme per i vicoli è molto più importante del risultato concreto quantificabile in chili di immondizia rimossi; perché significa appropriarsi della strade in cui viviamo e smettere di averne paura.
In effetti, la paura è stato il principale veicolo di consenso utilizzato nel corso del XX secolo (l'altro è stato la spesa pubblica) e continua ad esserlo tuttora: paura dei comunisti, degli immigrati, dei capitalisti, dei liberisti, degli intellettuali... certo, in tutte queste categorie c'è un congruo numero di brutta gente (specie tra gli intellettuali), ma non è che per questo bisogna averne paura in blocco come se ognuno di loro fosse l'uomo nero che ti porta via. Roosevelt (F.D.) che non solo aveva dei bravi ghost-writer, ma era bravo anche di suo, si studiò una frase destinata a fare epoca in un periodo in cui il totalitarismo sembrava la forma di governo destinata a trionfare sul pianeta: "L'unica cosa cui di dobbiamo aver paura è proprio la nostra paura".
Ci pensavo il giorno della pulizia: finiti i lavori eravamo tutti attorno ad una mensa improvvisata tra la moschea e la casa di quartiere (che il padrone del Kebab vicino aveva letteralmente riempito di ogni ben di Dio). Mentre eravamo tutti lì, proprio davanti a noi due nordafricani (e uno di loro era una faccia “nota”) hanno iniziato a litigare molto rumorosamente. Troppo rumorosamente. Non era una rissa (erano solo due persone cui se n'è aggiunta una terza che cercava di fare non molto convintamente da paciere) quanto un alterco rumoroso, ma si stava svolgendo proprio davanti alla tavola dove eravamo tutti. “Ecco” ho pensato “il nostro era uno spettacolino per far vedere che queste strade appartengono a noi... ecco un altro spettacolino fatto da chi pensa che le strade siano invece sue”. In effetti, si trattava soltanto di una piccola “contromanifestazione” scioltasi dopo pochi ma rumorosi istanti. “Mamma mia” ho pensato ancora “quanta paura deve avere uno spacciatore del fatto che la gente cominci a sciamare per i vicoli, disturbando le operazioni di compravendita!”
Sì, un posto per spacciare ci sarà sempre, ma più lontano sarà dal centro più gli affari potrebbero calare e, sinceramente, non credo che uno spacciatore guadagni così tanto da potersi permettere una brusca contrazione degli affari. I suoi “datori di lavoro”, quelli sì che guadagnano tanto, ma gli spacciatori da strada li vedi sempre nello stesso posto, con le stesse magliette usurate e la stessa espressione incarognita di chi quel giorno ha messo in tasca ben poco. Secondo me vengono attirati nel giro con un po' di soldi quando sono giovanissimi (e quindi non incarcerabili) e quando i loro desideri possono essere esauditi da cifre con due (massimo massimo tre) zeri, poi; quando riangono stretti ben bene alla rete di spaccio, i soldi cominciano a diminuire fino al limite della fame, così sono spinti a diventare più intraprendenti (no... non ho mai spacciato in vita mia, me lo immagino perché fanno così con i venditori e con i brokers della borsa).
Insomma: per la strada o noi o loro, è la legge del mercato.
Non solo. Quello che mi ha colpito della scena è che i due (o tre) spacciatori stavano facendo esattamente la stessa cosa che facevo io. Difendevano il loro territorio. D'altra parte, erano stati lasciati in pace così tanto tempo e loro se lo erano preso proprio perché non lo voleva nessuno. Anch'io al loro posto mi sarei incazzato!
Vi farò ridere, ma lì per lì ho dovuto anche chiedermi se fossimo noi nel giusto. Dovete capirmi: sono cittadino di un paese dove essere un immigrato è un reato, e per un cittadino onesto è un dovere denunciarne la presenza (anche se si è il suo medico o il suo insegnante); mentre non è reato truffare, mentire e – in molti casi – rubare. Credo in una religione in cui si dice che l'aborto è sempre omicidio mentre bombardare dei bambini può anche non esserlo. È andata a finire che devo valutare le cose caso per caso, senza mai dare per scontato di essere io dalla parte della ragione (diciamo che quando il cardinal Ratzinger – persona di grande intelligenza – un giorno prima di diventare papa ha letto il discorso sulla “navicella della chiesa squassata dalle onde del relativismo” mi sono gasato nel pensare che a soffiare c'ero io). Così, di fronte ai due spettacolini contrapposti, mi sono chiesto spassionatamente da che parte stesse il giusto. Ma la risposta, per una volta, era facile: il giusto sta dala parte del gruppo che cerca di dare benessere al maggior numero di individui e io non sono ancora così bravo in matematica per fare i calcoli relativi ai 6 miliardi di persone che abitano il pianeta, ma lì nel vicolo il problema era banalmente dimostrato. Da una parte c'erano una quarantina di residenti mediamente felici (non dico che fosse il Carnevale di Rio, ma una simpatica festicciola, sì) e dall'altro tre spacciatori incazzati che sbraitavano e se ne sono andati quando hanno visto che non riscuotevano così tanto interesse.
Se i cani segnano il loro territorio pisciando sui muri, e i malintenzionati (chiamiamoli genericamente così qualunque sia il ivello di cattiveria delle loro intenzioni) lo fanno con le risse, le persona di buona volontà (chiamiamole genericamente così per poca o tanta che sia) lo fanno semplicemente andando per la strada; e, credetemi, non è poi così facile nei difficili tempi che stiamo attraversando.
È per questo che quando ho sentito che, esattamente il giorno dopo la bella iniziativa di Via Pré, c'è stata una brutta rissa davanti alla Commenda – che tra l'altro ha coinvolto uno degli organizzatori della manifestazione del giorno prima che passava di lì casualmente assieme al figlio – invece di pensare (come sembra abbiano fatto tutti) che siamo dei poveri illusi perché violenza e delinquenza sono incontrollabili nel centro storico, mi sono detto: “Accidenti, per arrivare ad una replica così violenta, la festa di ieri deve aver funzionato sul serio!”
Sbagliavo. Un conto è lo spettacolino di un alterco fatto da due spacciatori infastiditi dal tramestio nel “loro” territorio, un conto è la rissa a bottigliate che si è scatenata la sera scorsa. I mezzi di informazione, cavalcando il contrasto tra le immagini della “festa multietnica” con tanto di autorità e quelle di una rissa stile Bronx, non hanno pensato che insistendo sul legame tra le due vicende potesse instillare l'idea che non fosse una coincidenza (e io, lo confesso, sono un grande appassionato di dietrologia).
Per fortuna – ma ci starebbe anche un purtroppo – non è così. La rissa era davvero una coincidenza. Anche se la “pericolosità percepita” del centro storico è infinitamente maggiore di quella reale, le risse sono all'ordine del giorno e con i tempi di crisi che ci attendono sono destinate ad aumentare. E quella di Pré ha ottenuto l'interesse della cronaca solo perché avvenuta quasi in concomitanza con la festa del giorno prima.
Quest'ultimo fatto è però quello che ci deve far pensare. La festa ha avuto un tale risalto da dare interesse alla rissa (e non il contrario) e, quindi, anche se la rissa non ne è stato il riflesso condizionato, il discorso sull'importanza simbolica di simili manifestazioni rimane inalterato, non foss'altro perchè ha portato all'attenzione del pubblico una serie di problemi anche più vasta di quanto ci si proponesse inizialmente.
Per concludere, se è importante la presenza delle forze dell'ordine in zona (molto meglio i poliziotti di quartiere delle ronde di alpini, volenterosi ma spaesati) ed è probabilmente inutile quella delle telecamere (per la maggior parte finte e comunque inutilizzabili per identificare chicchessia), fondamentale è il fatto che la gente ritorni per strada e conosca i propri vicini. E soprattutto, che impari a non averne paura.

 
Max Beckmann (1884 - 1950)
La Notte (1919)
Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen


sabato 24 settembre 2011

Pillole del post precedente



Carl Spitzweg (1808 - 1885)
Il poeta povero (1839)
Neue Pinakothek, Monaco di Baviera
 

Su Barcellona
Negli anni Ottanta, a Barcellona hanno iniziato un vasto processo di rinnovamento del centro storico basato su piccoli interventi di risanamento puntuali, al limite dell'arredo urbano, nell'obiettivo di innescare un circolo virtuoso di risanamento. L'operazione ebbe un grande successo culminato nelle grandi opere per le Olimpiadi del '92; poi la frenesia immobiliare degli anni Novanta ha cambiato le carte in tavola: gli immobiliaristi avevano fretta di costruire e vendere e il processo di rinnovo urbano si è orientato su opere di demolizione e ricostruzione, la cui riuscita era da ascrivere più agli interventi precedenti che ad una loro intrinseca bontà progettuale. La crisi del 2007 ha fermato tutto... fortunatamente. Genova e Barcellona hanno molti tratti in comune (forse sarebbe un bell'argomento per un post) e sarebbe il caso di trarre qualche insegnamento dalle loro esperienze.

 attribuito a Carl Spitzweg (1808 - 1885)
L'abbaino (1849)
Collezione privata

Sulle case del Ghetto
Per un motivo che mi sfugge, Genova odia il suo Ottocento. Forse perché in quel periodo i genovesi emigravano per viaggiare per il mondo: Mazzini girava un po' dappertutto (“mi dite che Mazzini è in Alemagna /mi dite che è tornato in Inghilterra/chi lo vuol sugli altari e chi sotterra”), Bixio è morto mntre navigava al largo dell'Indonesia, Garibaldi è emigrato prima a New York e poi nel Paranà... per dare un'idea di quanto questo luogo si trovi in capo al mondo, pensate che il posto dove hanno dato una cattedra universitaria a Scilipoti (non è una battuta)...
Eppure è stata un'epoca di grandi successi e di splendidi monumenti (uno su tutti: Staglieno) che puntualmente vengono lasciati marcire perché l'unica cosa che vale la pena salvare è il Medio Evo.
Allora il Ghetto è da salvare? No... il Ghetto è ottocentesco: nell'Ottocento qualche abile imprenditore ha comprato vecchie case, qualcuna ancora con i danni del bombardamento del Re Sole, e le ha rifatte svuotandole dall'interno. Dato che erano gente seria, gli alloggi erano costruiti sul modello di quelli dell'alta borghesia Fecero un così buon lavoro nel coniugare vecchio e nuovo, che ancora oggi la gente pensa al Ghetto in termini di vicoli “medievali”. Non sono tanto sicuro che un architetto (o un imprenditore) dei nostri giorni si dimostrerebbe altrettanto in gamba.


Carl Spitzweg (1808 - 1885)
L'ipocondriaco (1839)
Neue Pinakothek, Monaco di Baviera


Casa dolce casa



Roy Lichtenstein (1923 - 1997)
This Must Be The Place (1965)
Museum Of Modern Art, New York

Nel libro Il quartiere del Ghetto di Genova. Studi e proposte per il recupero dell'esistente, cur. A. Buti, Nardini 2008, trovo un'interessante disanima sulla situazione del quartiere, redatta in modo molto “professionale” (non è ironia, è un complimento spassionato). Qua e là emergono tuttavia frasi preoccupanti, come quando un professore di progettazione sembra invocare l'esempio di Barcellona, dove si è spianato un intero quartiere grande quasi quanto il Ghetto e lo si è riedificato in forme moderne. Bè... la qualità della vita degli abitanti delle aree rinnovate di Barcellona non è cambiata, ma le case sono più brutte. E non è un giudizio personale: non c'è niente di peggio di una costruzione che appare già fatiscente dopo pochissimi anni.
Almeno, quelle del Ghetto sono fatiscenti dopo cento e passa anni. Dà un certo tono...
Mettiamo un attimo i puntini sulle i... a Barcellona il Raval, una volta si chiamava “Barrio Chino” e ai tempi della dittatura era considerato il quartiere più pericoloso della città. Certo vi abbondavano ladri e delinquenti, ma anche gli anarchici (prima che si estinguessero) e i comunisti. Insomma, Franco non era particolarmente amato; ma diciamo che gran parte dell'infamia dl quartiere derivava dal fatto di trovarsi sul lato sbagliato della Rambla (ed Eusebi Guell fece costruire a Gaudì il suo palazzo proprio lì perché era un tipo eccentrico quanto tosto). Con la fine del franchismo, il quartiere si risollevò più o meno come tutta la Spagna, ma la nomea rimase, spingendo i pianificatori a far piazza pulita del vecchio Barrio Chino, e con un'operazione quanto mai significativa recuperarono il vecchio nome ma demolirono le vecchie case. I sogni di gloria e di gentryfication degli immobiliaristi si sono infranti con la crisi del 2007 e il risultato è un posto triste e anodino.
Ma torniamo adesso al Ghetto. Come il vecchio Barrio Chino, anche il Ghetto non ha un nome proprio edificante, e credo che la fama di pericolosità che ho spesso avvertito derivi principalmente dal nome. Sia detto per inciso, a me piace così. Non vorrei che qualcuno recuperasse un toponimo medievale dal libro di Poleggi. Oppure pensate ad un acronimo come a New York... invece che SOHO (SOuth HOuston Street) o NOLITA (NOrth Little ITAly) qualcosa tipo MESONU (quella MErda SOtto la NUnziata). No... Ghetto mi piace. Sa di internazionale e di cittadino assieme.
Per quanto riguarda la delinquenza, lo confesso... da qualche anno che sono qua ho visto solo spaccio (a volte poco, a volte tanto, a volte decisamente troppo) e una volta (ma sono sicuro che ce ne saranno state di più) ho assistito ad uno scippo. Ah... ci sarebbero molti clandestini, cosa che, a quanto ne ho capito, in Italia costituisce reato. Per quel che riguarda la prostituzione, sinceramente dal punto di vista legale, non ci ho ancora capito niente. Quello che so è che nel condominio dove abito nessuno è mai stato arrestato o inquisito (una percentuale dello 0 %), mentre nel Parlamento italiano oscilla tra il 6 e l'8 (secondo alcune stime il 10). Quindi, secondo questa discriminante, prima del Ghetto, dovremmo tirar giù Montecitorio (salviamo il fregio di Sartorio che è pompiere ma mi piace) e Palazzo Madama.
Al di là degli scherzi, quando ho letto qualcuno che proponeva di “fare come a Barcellona”, prima ho pensato ad una politica di piccoli interventi puntuali di riqualificazione – più di arredo che di edificazione – come aveva fatto Bohigas negli anni Ottanta (e con ottimi risultati) e solo dopo ho capito che parlava di ruspe...
Intendiamoci, nel Ghetto ci sono alcuni isolati seriamente ammalorati da un punto di vista strutturale... nel centro storico ce ne sono meno di quel che si pensi, ma ce n'è... e quelli vanno monitorati con attenzione, Se il loro recupero risultasse antieconomico, bisognerà procedere ad una loro ricostruzione.
Qualcuno dice che, dato che dal punto di vista storico e architettonico non valgono niente, non sarebbe un gran danno demolirli assieme a quelli che gli stanno a fianco. Ne siamo sicuri?
A Genova abbiamo già demolito la vecchia caserma dei pompieri davanti a Sarzano, perché non valeva niente né storicamente né architettonicamente; adesso al suo posto c'è un campo di calcetto in sintetico e un parcheggio. Mah.... Vogliono demolire il Silos Hennebique perché non vale niente né storicamente né architettonicamente, e al suo posto tirar su un “qualcosa” il cui progetto e la cui destinazione d'uso cambiano di continuo, quindi prepariamoci a un campetto di calcio in sintetico e a un parcheggio.
Da un po' di tempo ho l'impressione che chi sentenzia la mancanza di interesse storico o architettonico negli edifici spesso ciurli nel manico... La vecchia caserma dei pompieri era una costruzione che poteva piacere o non piacere, ma era comunque caratteristico di un'epoca, e poi, per un certo tempo, era stata utilizzata per accogliere le famiglie di emigranti che arrivavano a Genova in attesa di partire per l'America. Un bel pezzo della nostra storia. Oggi non avete idea di quanti sono i turisti americani o brasiliani che vengono in città per vedere il porto da cui erano partiti i loro nonni e, forse, quello sarebbe stato un posto che gli sarebbe piaciuto vedere (dei patiti di musica che vagano per il Centro dei Liguri alla ricerca della casa natale di Paganini non parlo nemmeno)
L'Hennebique, da parte sua, architettonicamente parlando è ancora un titano: quando venne costruito era il più grande edificio in cemento armato del mondo; nel 1927 fu l'unico edificio italiano ad essere citato nell'epitome sulle più importanti costruzioni del tempo redatta dal Platz, uno dei testi più influenti di tutta la storia dell'architettura moderna. E, storicamente, fu nientemeno che il granaio della nazione... è vero che serviva agli imprenditori per accumulare scorte così da venderle nei momenti più favorevoli, ma andate a vedere l'aspetto che ha dalla punta dei magazzini del cotone: immenso. Come diceva Platz, era l'unico edifico italiano che potesse stare alla pari con i modelli degli antichi romani. Oggi vorrebbero buttarlo giù.
Per questo ci andrei piano nel giudicare gli edifici del Ghetto irrilevanti. Anche loro hanno la loro brava storia. Si tratta di costruzioni medievali riattate nel corso del XIX secolo, e quelli che ci misero le mani erano maledettamente bravi. Pensate cosa significa prendere un palazzo antico e ricostruirne gli appartamenti dall'interno senza far venir giù tutto. Se fosse facile, oggi cercherebbe di fare la stessa cosa invece di butta giù tutto. Inoltre, dato che erano bravi, per gli appartamenti ripresero la distribuzione degli alloggi altoborghesi anche se erano case per operai; allo stesso modo, per le finiture chiamarono quegli stessi artigiani che in città lavoravano per committenze ben più prestigiose, come i palazzi attorno a Via XX settembre o quelli di Circonvallazione a mare. Sotto l'intonaco di casa mia, spuntano fregi dipinti... fregi dipinti! In una casa operaia. All'epoca, a Genova, gli alloggi popolari erano qualitativamente tra i migliori d'Europa. D'altra parte il Comune mandava i suoi funzionari in giro per il mondo a studiare quali fossero le soluzioni più efficaci per i problemi costruttivi o urbanistici. Gli architetti e gli ingegneri di quel tempo sono stati quasi completamente dimenticati: Severino e Renzo Picasso, Cesare Gamba, Cesare Parodi... Secondo me, qui nel Ghetto ci mise le mani Francesco Ponte, non un ingegnere, ma un imprenditore specializzato nel ristrutturare edifici fatiscenti, magari accorpandoli e svuotandoli... però per esserne sicuro dovrei fare un po' di ricerche d'archivio che una volta o l'altra mi metterò in testa di fare.
Insomma, anche le case del Ghetto hanno una loro storia, e sono infinitamente più comode e meglio costruite rispetto a qualunque analogo costruito negli ultimi quarant'anni (vedere per credere). E non sto parlando dei palazzi targati UNESCO di Via Lomellini o delle dimore nobiliari di Via del Campo ma delle case sine nobilitate di Vico Croce Bianca, dove un qualche imprenditore senza nome dell'Ottocento è stato in grado di operare una ristrutturazione che oggi farebbe tremare qualsiasi architetto. Ne ho visto qualche esempio in giro nel Centro Storico e mi sono terrorizzato, ma questa è un'altra storia...


Maurits Cornelis Escher (1898 - 1972)
Relatività (1953)